L’incubo del futuro? Una bella patria populista, sovranista e protezionista per il ritorno a casa dell’ex-capitalismo globale
La scorciatoia del populismo
Il 2016 è stato l’anno delle rivolte populiste. La Brexit, la vittoria di Trump, i sondaggi crescenti per la destra xenofoba e razzista in tutta Europa, l’empito sovranista in chiave anti-europea di certa sinistra nazionalista, pretendono di trovare nel popolo l’unzione per accreditarsi a governare le nuove patrie del futuro.
Ma non basta vincere le elezioni o arrivare piazzati, come in Olanda, per trasformare le patrie umiliate dal Fondo Monetario o dalle politiche sul debito della UE, in paesi sovrani.
Tornare a battere moneta e introdurre dazi ai confini non proteggerà l’economia nazionale.
Respingere gli immigrati non serve a spingere la crescita del PIL.
Rimpatriare l’attività delle multinazionali significa importare anche le condizioni di lavoro degradate, in primis quelle salariati, di cui esse hanno potuto beneficiare finora.
La subalternità agli interessi dei rispettivi capitalismi da parte delle organizzazioni sindacali riformiste si realizza in Europa e nei paesi a capitalismo maturo con una perdita di consensi e dei vecchi ruoli concertativi.
Bisogna fare i conti col capitalismo che dopo 25 anni di globalizzazione se ne torna a casa.
Meno profitti, meno globalizzazione
Un ritorno, una ritirata che sono iniziati ben prima dell’ondata populista.
Negli ultimi 5 anni i profitti delle multinazionali sono calati del 25%.
Circa il 40% delle multinazionali hanno una redditività del capitale investito inferiore al 10%.
Se dieci anni fa la quota dei profitti globali delle multinazionali era del 35%, oggi è del 30%.
Questi indici costanti per imprese industriali, manifatturiere, finanziarie, dell’agro-alimentare e delle risorse naturali, dei media e della comunicazione hanno un solo significato: l’approccio globale è diventato un fardello e non più un vantaggio per fare profitti.
Ne sta facendo le spese il populista Regno Unito, la cui bilancia commerciale è in grave deficit per il venir meno dei profitti delle sue multinazionali.
Il barile delle agevolazioni fiscali, dei bassi salari, delle licenze ad inquinare, ottenute dai paesi in cui le multinazionali si insediavano, è stato raschiato a fondo.
I tempi in cui le multinazionali compravano e vendevano contemporaneamente su diversi mercati, speculando sulle differenze di prezzo dei beni sembrano essersi interrotti.
Dalla Germania all’Indonesia si fanno più stringenti le regole sugli acquisti di imprese locali da parte delle multinazionali.
Nel 2016, la UE e gli USA hanno avuto un duro scontro su chi avesse diritto ai $33 miliardi che la Apple e Pfizer pagano annualmente.
La Cina vuole di più: che le multinazionali portino le loro attività di ricerca e di sviluppo nel paese.
Chi rileva imprese all’estero deve sempre più garantire il carattere nazionale di quelle imprese e cioè: mantenere i posti di lavoro, pagare le tasse e garantire ricerca&sviluppo. Un settore, quest’ultimo, sempre più affidato all’industria militare.
Quando Trump dice che le imprese americane devono smettere di delocalizzare posti di lavoro ed impianti all’estero e che è pronto ad una politica fiscale agevolata per riportare i capitali delle multinazionali a casa, a riscrivere le regole delle transazioni internazionali, salvo imporre dazi sulle catene di distribuzione transfrontaliere, sta lanciando un messaggio protezionista preciso.
Un messaggio che piace a tutti i populisti, sovranisti e protezionisti: mettere le mani sul valore prodotto dalle multinazionali per finanziare le proprie politiche patriottiche e ricevere ulteriore consenso popolare.
Su questo versante i sovranisti di destra sembrano più attrezzati dei sovranisti di sinistra, alquanto in difficoltà ad imbastire campagne populiste che si rivolgono alla pancia dell’elettorato, rischiando, quindi, di finire al rimorchio di parole d’ordine reazionarie.
Populismo, sovranismo e protezionismo, dunque, contano sulla grande ritirata delle multinazionali e sul loro reinvestire in patria in impianti e posti di lavoro.
E’ prevedibile che, prima di mettere a disposizione in patria il valore prodotto, le imprese capitalistiche pongano delle condizioni: molto probabilmente le stesse che hanno segnato questi ultimi decenni e soprattutto gli ultimi 10 anni di crisi globale.
Condizioni che hanno portato la UE alla depressione economica.
Questo vale soprattutto per l’Italia, un paese senza multinazionali di ritorno e senza più un’industria nazionale, in cui i salari sono tra i più bassi nell’Unione Europea.
Combattere il capitalismo, globalizzato o domestico che sia
Le scorciatoie del sovranismo portano la sinistra in un vicolo cieco; invece occorre rilanciare una prassi internazionalista e combattere il capitalismo in ogni luogo di lavoro e di vita, costruendo orizzonti di alternativa sociale in cui donne ed uomini organizzati come classe di sfruttati ed oppressi sfidano il dominio capitalistico e populista e ricostruiscono solidarietà e partecipazione dal basso.
Con loro, tra di loro, anche noi anarchic* e libertar* per la lotta di classe.
Alternativa Libertaria/fdca
97° CdD
Fano, 25 marzo 2017