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Il Jobs Act figlio delle linee di ristrutturazione dell’industria in Europa

I recentissimi decreti applicativi del Jobs Act emanati dal governo italiano si aggiungono ad altre legislazioni anti-operaie approvate all’interno dell’Unione Europea (UE). I contratti individuali a tutele crescenti, la ridefinizione del lavoro subordinato, la flessibilità svincolata dalla contrattazione, la monetizzazione dei licenziamenti e dell’espulsione dal ciclo produttivo hanno lo scopo immediato di portare all’irrilevanza il diritto di coalizione dei lavoratori ed il ruolo dell’organizzazione sindacale dentro le fabbriche.

Ma, al tempo stesso, si compie così anche in Italia una parte di quella ristrutturazione del diritto del lavoro che, dietro la facciata delle politiche di austerity inculcate dall’economia del debito, si inserisce nei processi di ristrutturazione dell’industria, già realizzati e in atto in UE.

Tali processi stanno seguendo 4 direttrici.

1. I salariati subiscono questi processi di ristrutturazione.

Non esiste alcuna regolamentazione UE sui temi del lavoro. Nel frattempo le regolamentazioni nazionali non funzionano più, essendo le imprese sotto il ricatto di trasferimento in un altro paese o sono state smantellate per non interferire nei processi in corso.

Questi nuovi sistemi di imprese che si sono formati risultano di fatto dominanti.

2. A iniziare da Maastricht, l’industria europea si è strutturata come industria sovranazionale.

3. Siamo in presenza di sistemi di imprese strutturate attorno ad una azienda leader con reti di imprese e catene di fornitura.

4. Sistemi di imprese distribuiti in molti paesi, ma in modo non omogeneo e fortemente concentrato, o meglio centralizzato e strutturato in modo oligopolistico.

Le catene produttive che si sono via via costruite hanno sviluppato un sistema fortemente integrato, sia nei criteri di efficienza sia per i margini di ritorno (profitti); questi ultimi risultano sempre meno riscontrabili a livelli di singola impresa e sempre di più a livello di ogni sistema, tanto nel caso che sia composto a catena di livelli quanto a rete con vincoli meno rigidi.

Attraverso tutto questo, si sono consolidati in Europa poteri che sono in grado di operare scelte di investimento in capacità produttiva, di strutturare il mercato, di collocare la finanza dove serve e infine di regolare direttamente il lavoro.

Se si entra nel sistema di governo di questi sistemi di impresa, si evidenzia il controllo fisico sui flussi produttivi, quindi su qualità, tempi, flessibilità e rapidità di esecuzione, su rapidità nel cambio del mix dei prodotti da fornire, ma pure sull’efficienza produttiva complessiva – vale a dire produttività, lead time, time to market – ed infine nei margini di ritorno (profitti) di quel singolo sistema di imprese.

Tali sistemi sono, dunque, organizzati attorno ad una azienda leader che controlla la parte finale del processo, in una catena di fornitura organizzata a livelli decrescenti di valore aggiunto e a reti di imprese produttive e di servizi, entrambe ad alta specializzazione, che lavorano per diverse imprese leader.

Chi domina tutto questo, chi controlla buona parte di queste reti di prodotto è la Germania che ha piegato molta parte dei sistemi industriali nazionali alle sue esigenze, utilizzando persino il pur nostalgico approccio nazional-capitalista.

Se si esamina la localizzazione della manifattura in UE, emerge che il nucleo centrale è collocato in Germania, la quale assieme ad Austria, Repubblica Ceca, Ungheria, Bulgaria, Lituania, Slovenia e Polonia formano l’area manifatturiera tedesca allargata. L’integrazione si sviluppa ad est dove si assiste ad una accelerazione anche nei processi di diversificazione e di specializzazione.

Lo sviluppo verso sud include la seconda manifattura europea: l’Italia. La quale partecipa in modo consistente all’area allargata manifatturiera tedesca anche con catene autonome di sub- fornitura create ad est. Questo fenomeno di germanizzazione si sviluppa nel nord dell’Italia e decresce verso il centro e il sud.

Assistiamo ad una realtà spaccata in due: una parte partecipa al sistema integrato mentre l’altra parte partecipa come periferia.

Occorre sottolineare che la delocalizzazione italiana ha riguardato catene di sub- fornitura comprendenti l’intero prodotto, a differenza del caso tedesco, dove la componente finale rimane all’azienda leader determinandone alla fine un aumento della capacità produttiva.

Se si semplifica: un alto quantitativo di beni intermedi concorrono all’export tedesco. Il che porterebbe alla ridefinizione delle partite correnti di riferimento nell’area europea, non più considerabili solo in termini quantitativi e di (in) squilibrio verso la Germania.

Permane nel nord Italia una composizione fatta di PMI, la quale pur di per sé poco rilevante nell’area di riferimento europea, mantiene una sua rete autonoma di export rispetto alla Germania.

In questo contesto, riprendono con vigore in Europa le fusioni, le concentrazioni e i passaggi di proprietà di aziende manifatturiere e di servizi.

Nei fatti, il concetto di manifattura circoscritto alla sola fabbricazione materiale si amplia fino a comprendere i servizi all’azienda per come viene configurata in questo sistema. Si tratta di servizi quali ricerca e sviluppo, le funzioni di progettazioni, il marketing, i servizi ai processi produttivi, i servizi di sostegno al prodotto, ecc. Va, quindi, considerata un’interdipendenza tra servizi e manifattura; una parte dei servizi è all’interno e viene assorbita dal prodotto, mentre un’altra parte si aggiunge successivamente.

In Italia, circa il 25% della manifattura è stata appaltata, determinando una scomposizione della classe. Questo è uno dei punti che hanno determinato e stanno determinando l’estrema difficoltà a riprendere un percorso di contrattazione, oltre alla sussistenza di mancanza di vincoli legislativi sui contratti di appalto.

La classe, come abbiamo detto, subisce questi processi, pur mettendo in campo in tutta l’area economica europea una forte resistenza. Ma, sino ad oggi, questa non si è tradotta in una strategia/progetto di ripresa di rapporti di forza finalizzati ad imporre al capitale vincoli sociali o alternative allo smantellamento dei diritti e delle tutele, né nel prefigurare un’idea di società diversa da quella che i padroni stanno costruendo e delineando.

Dalla Germania dipartono gli elementi di fondo anti-operai sinteticamente costruiti attorno alla drammatica riduzione dei salari, alla disoccupazione, alla radicale modifica del mercato della forza lavoro e delle relazioni industriali-sociali, i quali si sono via via estesi , aggravandosi, nei paesi del sud dell’Europa e dell’est-Europa per motivi che vanno, ad esempio, dalla inesistenza alla scarsa copertura dello Stato sociale; dalla posizione di minor profittabilità di partenza del capitale che impone draconiane misure di austerità a carico dei proletari fino ai processi di macelleria sociale attuali che caratterizzano il ruolo dello Stato nella fase capitalistica in corso.

In Germania si assiste ad una riduzione dei salari, alla creazione di un mercato della forza-lavoro composto da fasce, dove oltre al lavoro interinale (circa il 30% in meno di un salario di un lavoratore a tempo indeterminato), è stato creato un esercito di 7 milioni di lavoratori a basso salario con conseguenti sacche di povertà. Inoltre, la Germania usufruisce di un altro pezzo del mercato della forza-lavoro derivante dai pesi dell’est, entrati nell’UE per step successivi; paesi in cui il salario è di 2-3 euro l’ora, senza diritti e tutele decenti, dove sono state e sono in sviluppo le catene di fornitura per la manifattura e i servizi.

Il modello neo-mercantile tedesco si è alimentato non solo con la costruzione di un sistema integrato ampio basato sui bassi salari di altri paesi, ma anche su una segmentazione del mercato della forza lavoro nazionale. Risulta evidente l’adeguamento di tutta l’area europea rispetto al mercato della forza lavoro e sul terreno contrattuale conseguente.

Il caso Italia dimostra come si riesca a smantellare un sistema di diritti e protezioni sociali – nonostante una forte presenza sindacale – sostituendolo con una legislazione e un sistema contrattuale di matrice padronale. Le lavoratrici e i lavoratori italiani non hanno più né il contratto nazionale né lo statuto dei diritti dei lavoratori.

La circolazione delle merci, quindi il ruolo sempre più importante della logistica e l’introduzione massiccia di tecnologia avanzata nei processi produttivi e nei servizi, sono ulteriori processi che approfondiscono il rapporto di integrazione della manifattura europea col resto del sistema manifatturiero mondiale, fino a spingere tanto Federmeccanica (ottobre 2014) che Confindustria (maggio 2014) a parlare di quarta rivoluzione industriale.

La resistenza e la reazione della classe lavoratrice è oggi, come ieri, sempre più legata alla sua capacità di riorganizzazione su base internazionale e mondiale, sviluppando le forme di rappresentanza sindacale necessarie al superamento delle divisioni categoriali per costruire una ricomposizione di figure operaie e di lotte capace di reagire alla ristrutturazione capitalistica in atto.

Alternativa Libertaria/FdCA

3 marzo 2015

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