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Dopo gli anni delle veline, gli anni della vittima: vogliamo che i prossimi siano gli anni delle donne

Dopo gli anni delle veline, gli anni della vittima: vogliamo che i prossimi siano gli anni delle donne
Dicembre 25
17:10 2015

8 marzo, nulla da festeggiare in questa data che segna al suo attivo, in Italia, già ben 10 donne uccise per mano di ex, compagni, mariti, fidanzati.

Dopo secoli di silenzio, anche l’Italia scopre finalmente il femminicidio. E la donna velina (oggetto in vendita) cede il posto alla donna vittima (oggetto di violenza).

Sacrosanto rendere conto dell’aumento della violenza di genere, scardinare l’omertà del sistema e denunciare l’assenza di reti di sostegno. Ma l’attenzione mediatica alla vittimizzazione estrema rimane nella migliore delle ipotesi denuncia, privilegia le brave donne, spesso oscurando le irregolari e le donne più fragili (prostitute, straniere, trans), nega diritto di parola alle vittima, di solito morta, per lasciarlo a tutti coloro che sono intorno. Sempre, ancora, le donne sono rese deboli.

E’ la profonda crisi economica, i tagli al sociale, l’esclusione dal mondo del lavoro il ridurle nuovamente ad angeli del focolare relegate al ruolo di badanti o di mamme “amorevoli per forza” a causa dei costi inaccessibili degli asili nido, delle scuole materne e dalla scomparsa del tempo pieno nelle scuole, situazioni economiche disastrose, famiglie, nella migliore delle ipotesi, monoreddito, condite di malcontento, disagio e rinunce, che porta le donne ad essere sempre più esposte alla violenza di genere, violenza che si manifesta via via sotto forme differenti che possono condurre all’atto estremo. La dipendenza economica dal partner dà spesso adito a violenza psicologica determinata dal dover chiedere denaro in casa per poter gestire il bisogno “primario” del nucleo familiare in faticosi slalom alla ricerca del discount più conveniente.

Ma per renderci forti occorre che ricominciamo a parlare del lavoro, dei diritti, a rivendicare uno spazio proprio delle donne. Dalle condizioni materiali di vita delle donne dipende la loro capacità di liberarsi da vincoli oppressivi, più o meno consapevoli, e di aprire spazi di libertà e di trasformazione.

Se il capitalismo ci ha sempre considerate un esercito di riserva per il mercato del lavoro, per secoli le lavoratrici hanno combattuto contro la subordinazione alle logiche di un’economia femminile utile solo come sostegno alla famiglia, che si poteva accontentare quindi, di un valore economico inferiore.

Se negli anni Novanta, a fronte di un tasso di occupazione maschile rimasto stabile, si è assistito ad una crescita della partecipazione delle donne al mercato del lavoro, questo ha coinciso con un progressiva “femminilizzazione” del mercato del lavoro che ha aperto la strada alla “flessibilità” ovvero allo smantellamento progressivo dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici.

E se la femminilizzazione del mercato ha anche comportato fenomeni di de-segregazione a favore delle donne, a spese però di un diffuso fenomeno di sub-appalto dei lavori di cura ad altre donne, allo stesso tempo ha significato l’aumento di una domanda di lavoro “povera” e ha favorito il processo di flessibilizzazione – precarizzazione. Così l’ideologia del destino naturale delle donne nel ruolo di cura dei bambini, anziani, malati, il contrattacco ideologico, il cosiddetto backlash patriarcale e capitalista, contro il femminismo radicale e la libertà delle donne nelle scelte pubbliche e private, ha lavorato al disconoscimento delle donne nella loro pretesa di partecipare allo spazio pubblico a 360 gradi come attrici collettivamente riconosciute nello spazio sociale, nella vita dei paesi cosiddetti democratici.

Il cortocircuito si è verificato nella (scarsa, più vantata che reale) implementazione delle politiche di “conciliazione” dei tempi di vita e di lavoro delle donne, portata avanti in modo sciagurato e contraddittorio insieme allo smantellamento progressivo del welfare pubblico. Alle donne veniva proposto, e ora imposto dalla crisi economica, di conciliare i loro molti impegni obbligati nel posto di lavoro e nel tenere in piedi i destini delle loro famiglie, invece di puntare a una condivisione e una corresponsabilità nei compiti di cura. La progressiva privatizzazione del welfare ha fatto il resto: costi dei servizi molto alti a fronte di salari molto bassi delle donne, o di progressiva incentivazione del part-time, stanno portando all’ulteriore precarizzazione e alla successiva uscita in massa dal mondo del lavoro, proprio in concomitanza con la crisi che è stata a lungo preparata e si è abbattuta alla fine del decennio scorso. Il risultato è sotto gli occhi di tutte e tutti noi, le donne che sono state costrette culturalmente ed economicamente a subire massicciamente la flessibilità e la precarizzazione fino ad arrivare a livelli di nuova povertà che arrivano a livelli tragici nella vita delle donne separate o divorziate con figli. La violenza di genere, fenomeno che è sempre stato presente e forte nella società patriarcale contro le donne che hanno espresso volontà di indipendenza e autonomia di fronte le regole date come naturali e ovvie dentro i legami familiari, si è così accresciuta perché il valore delle donne nel capitalismo è diminuito in modo esponenziale e così la capacità di agire effettivamente istanze di libertà che le donne oggi vivono come necessarie per la loro sopravvivenza in un mondo che si sta facendo sempre più oppressivo.

Per questo come femministe comuniste anarchiche proponiamo per questo 8 marzo di rimettere al centro l’attenzione per le condizioni di vita e di lavoro delle donne, giovani e meno giovani, cittadine della terra e non di una sola nazione, in una prospettiva internazionale ed europea, favorendo spazi di consapevolezza culturale ed economico-sociale che portino ad una nuova conflittualità delle donne contro il capitalismo che ci ha preso a bersaglio della sua volontà di distruzione di ogni riconoscimento di dignità del lavoro e del lavoratore, di sfruttamento senza alcuna regola.

Dobbiamo chiedere con forza che in questa fase storica non vi siano discriminazioni ulteriori a scapito delle donne, colpite già, da sempre, nelle loro fasi più delicate della vita, a partire dal diritto all’autodeterminazione.

Desideriamo con forza un ritrovarci e un ritrovare solidarietà, sorellanza, rabbia, una rabbia costruttiva per il nostro presente e per un futuro che non vogliamo e non dobbiamo consegnare alle nostre giovani e ai nostri giovani con lo sfruttamento, la violenza, la discriminazione dell’oggi.

Vogliamo riprenderci le nostre vite, la consapevolezza del nostro valore, delle nostre capacità, vogliamo poter vivere una vita degna, libera e consapevole.

Che siano le donne oggi a dire basta e a proporsi come soggetto rivoluzionario, in un percorso comune che vada oltre ogni confine, perché, in fondo è questo l’8 marzo ed è l’unico 8 marzo possibile. Con l’augurio, e il desiderio, di continuare a costruirlo tutto l’anno.

Commissione etiche e politiche di genere
Federazione dei Comunisti Anarchici

8 marzo 2013

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