Teoria: Cos’è l’educazione popolare, davvero? Educazione popolare 3/3
Non è indottrinamento, non è animazione socio-culturale, non è “cittadinismo”… ma allora, in cosa consiste esattamente?
Il principio dell’educazione popolare, è di promuovere, al di fuori del sistema d’insegnamento tradizionale, un’educazione che ha come obiettivo il progresso sociale. Essa ha come concetti-pilastri l’emancipazione; la coscientizzazione; lo sviluppo del potere d’agire e la trasformazione sociale. Essa associa gli assi personale, collettivo e politico. Prendendo le distanze dalla vittimizzazione e da un umanesimo paternalista, essa vuole sviluppare la potenza d’agire: potere interiore, potere di, potere su. Il tutto senza cadere nell’eccesso inverso: lo slogan neoliberale colpevolizzatore del tipo “Se vuoi, puoi”. Per il tramite dei processi di educazione popolare, si tratta, individualmente e collettivamente, di affermare la propria dignità, di autoeducarsi, di prendere coscienza dei rapporti sociali e di costruire una forza collettiva, adatta a immaginare e agire per la trasformazione sociale.
Due obiettivi per tutto ciò: “autorizzarsi a “, e desiderare il miglioramento della società.
1° Obiettivo: “autorizzarsi a”
Qui, si tratta di acquistare in audacia, in creatività, in capacità di pensare da se stessi; di interrogarsi sullo stato delle cose così com’è; di capire che esso non è immutabile; di autorizzarsi a, di sentirsi abilitati a, di sentirsi capaci di, di non autocensurarsi né autolimitarsi al posto che ci è assegnato dai rapporti sociali, il genere, la cultura d’origine; di favorire un’educazione di tutti, uomini e donne, una valorizzazione dei saperi di ognuno. La prima tappa dell’emancipazione, è di prendere coscienza dei rapporti di dominio subiti, che quest’ultimi sono strutturali (soprattutto il razzismo, il patriarcato, il capitalismo, l’eteronormatività) o peculiari a ciascun gruppo (ad esempio l’anzianità, il sapere, …). si tratta di “uccidere lo sbirro che abbiamo nella testa” per riprendere una formula di Augusto Boal (il creatore del Teatro dell’oppresso [1]) e di liberarsi dei domini che abbiamo interiorizzato. Nulla a che vedere, dunque, con lo “sviluppo personale” di cui straripano gli scaffali delle librerie e, che propone dei metodi per essere felici malgrado i rapporti di dominio subiti. Cioè sapere che l’alienazione esiste non basta. I fumatori sanno che “fumare nuoce gravemenete alla salute”. Le donne sanno che le porte delle scuole di ingegneria non sono loro formalmente chiuse. Soltanto una presa di coscienza, provocata da una particolare attribuzione può permettere l’emancipazione da un’alienazione. D’altronde, lo stigma può permettere un’appropriazione e una giustificazione di ciò che può sembrare infamante: “”Si dice questo di me? Finirò con il pensarlo io stesso, e assumerlo e anche volere essere così”.
Quattro livelli di coscientizzazione
Secondo Colette Humbert, una pedagoga vicina alle idee del brasiliano Paul Freire, si possono identificare quattro livelli di coscientizzazione: la coscienza sottomessa, innanzitutto, non comporta che un senso di impotenza; la coscienza precritica in seguito, ci conduce a porre delle parole sulle cose e a situarci nei rapporti sociali. La coscienza critica integratrice ci spinge a voler fare muovere le cose ma senza in cambio essere pronti a rimettere tutto in causa. La coscienza critica liberatrice, infine, ci fa constatare che agire nel quadro non basta, e ci spinge ad agire collettivamente per cambiare il quadro.
2° Obiettivo: desiderare un miglioramento della società
Il secondo obiettivo dell’educazione popolare, è di provocare l’esigenza – irresistibile, se possibile – di migliorare la società. In questo quadro, si tratta di andare da un potere interno verso un potere di, poi a un potere su. Si deve liberare il proprio immaginario, osare l’utopia (un orizzonte forse irraggiungibile , ma che struttura l’azione) e darsi degli obiettivi raggiungibili in termini d’azione (perché ciò che può inibire il potere d’agire, è di impegnarsi in qualcosa di troppo grande per noi, su cui non abbiamo presa). Bisogna sforzarsi di accrescere la coscienza di appartenere a una società, e di avere, una responsabilità politica all’interno di questa società. Si tratta di praticare la democrazia e l’autogestione. Per aumentare ciò che è chiamata la potenza d’agire, bisogna porsi in una dinamica in cui si produrrà la storia, e non soltanto subirla. Da cui l’idea di non fermarsi a un potere di, ma di mirare giustamente un potere su, che darà l’opinione che sì, possiamo trasformare la società.
Della diversità delle strategie
Così come l’azione politica, l’educazione popolare può riguardare tre livelli strategici:
1. Senza il potere
Le esperienze alternative condotte al di fuori del sistema dominante hanno valore di esemplarità, anche se la loro generalizzazione sembra impossibile: gli Amap (Association pour le maintien d’une agriculture paysanne) non porteranno certo all’estinzione degli ipermercati, la stampa indipendente non rovinerà i grandi gruppi di media, le scuole alternative non mineranno le basi dell’educazione nazionale e le poche cooperative autogestite che esistono non liquideranno il modo di produzione capitalista. Tuttavia, queste “alternative in atto” costituiscono dei contro-esempi, la prova che si può fare altrimenti, che il modello capitalista non è il solo possibile.
2. Contro il potere
Opporsi al sistema esistente, porlo in causa, denunciarne la violenza e l’assurdità, è anche costitutivo dell’educazione popolare. L’azione politica ha degli effetti sulla società, ma più ancora sui militanti, uomini e donne, che, a mano a mano che abbracciano una causa, “uccidono gli sbirri che hanno in testa”. La contestazione del sistema, anche la meno radicale, rileva di questa procedura. Costituisce a volte il primo passo verso le idee rivoluzionarie.
3. Con il potere
Possono esistere degli spazi di sovversione all’interno del sistema. È ciò che possono praticare ad esempio, a forza di pazienza e di costanza, i sostenitori, uomini e donne, di un’alternativa pedagogica che agiscono all’interno dell’educazione nazionale, o i militanti, uomini e donne, autogestionari che lavorano nelle strutture dette d’educazione popolare. Che lo si voglia o non, queste tre strategie interagiscono, ed è tanto meglio così. Se la separazione fosse impermeabile, il rischio sarebbe che ognuna, bastando a sé, si disconettesse da un progetto di trasformazione globale (per la prima), reale (per la seconda) e radicale (per la terza) della società.
Contro la cultura come prodotto di consumo
L’educazione popolare è spesso confusa con l’animazione socio-culturale. È il risultato di politiche pubbliche che hanno neutralizzato il suo potere critico, e che hanno ottenuto che molte associazioni si autocensurino per corrispondere a ciò che ci si aspettava da esse. Eppure, l’educazione popolare non ha nulla in comune con la nozione di “tempo libero”, che, come scrive Jean Foucambert, della “Association française pour la lecture”, non è altro che “del tempo guadagnato sul lavoro, del tempo per dimenticare il lavoro, per tentare di riprenderne, e riprendersi” [2]. “L’educazione popolare è una pratica culturale di resistenza”, ha scritto il pedagogo belga Jean-Pierre Nossent. O più esattamente “di messa in atto di una cultura della resistenza. Resistenza a chiunque volesse ridurre gli individui e i gruppi sociali a un oggetto per il capitalismo che tenta di incatenarli al servizio di beni di consumo, sia con la loro inclusione nel suo sistema sia con l’esclusione di alcuni” [3]. La cultura è uno strumento di dignità per i popoli. Ma con cultura, non si deve intendere la produzione “di opere” da parte di “artisti” con tanto di marchio, che il buon popolo deve ammirare per essere riconosciuto come “colto”. Ciò che conta, ancora una volta, è di incoraggiare tutti a operare. Si tratta meno di condurre le persone alla “cultura” quanto favorire l’espressione della loro, o per lo meno della loro identità.
Una pedagogia della democrazia
Poiché hanno come obiettivo di politicizzare il più grande numero di persone, le procedure di educazione popolare costituiscono una pedagogia della democrazia. Si tratta di “civismo” o di “cittadinismo”? Niente affatto. Là dove l’educazione civica comunemente praticata, soprattutto nel sistema scolastico, mira al mantenimento dell’ordine e della pace sociale – votare utile, raccogliere il pezzo di carta da terra, tenere la porta aperta per far passare una becchia signora -, l’educazione popolare ambisce a far emergere degli spiriti critici, rivendicativi, contestatari. Non per singolarizzarsi e assumere la posa del ribelle chiacchierone, ma per suscitare l’azione collettiva. È una procedura che incoraggia l’aumento in potenza delle persone, individualmente e collettivamente. Essa si appoggia sulla memoria delle lotte, e pratica una democrazia vivente, e cioè autogestionaria. “Una società senza una certa tolleranza di fronte alla conflittualità non si condanna alla pace e l’armonia, essa si condanna allo scontro”, diceva il filosofo Benasayag in un’intervista dopo la morte di Rémi Fraisse a Sivens [4]. Ed è vero. Perché sono indispensabili a un funzionamento democratico, l’educazione popolare valorizzerà sempre la conflittualità, i dibattiti contraddittori, la complessità del pensiero e l’assenza di soluzioni miracolose, venendo a risolvere tutti i problemi dall’esterno.
L’esca della “partecipazione”
Nel dopoguerra, in Francia il Gaullismo si è sforzato di pacificare la lotta di classe incoraggiando la collaborazione tra i capitalisti e i loro salariati. Fu la creazione dei comitati d’impresa, della partecipazione ai benefici, e di quel serpente marino chiamatio azionariato salariato.
Il Maggio 68 e il decennio di “insubordinazione operaia” che ne è seguito, ha rilanciato l’idea che i lavoratoti, uomini e donne, dovevano avere più potere nelle loro imprese. Nella sua versione rivoluzionaria, quest’idea conduceva all’autogestione socialista. Nella sua versione contro-rivoluzionaria, ha portato alla “gestione partecipativa” e ai suoi diversi congegni (circoli di qualità, gruppi d’espressione, gruppi di progetto…) che permettevano di aspirare le buone idee dei lavoratori senza mai lasciarli decidere sulle questioni importanti.
Durante gli anni 90, questa strategia di gestione partecipativa ha conosciuto una trasposizione su scala comunale, soprattutto con l’esperienza del “bilancio partecipativo” di Porto Alegre (Brasile). Si trattava di affidare a delle assemblee di quartiere la cura di decidere a queli posti sarebbe stato attribuito una parte del bilancio municipale. Dopo una fase di entusiasmo per quest’esperienza d’altronde istruttiva, i movimenti sociali si sono a mano a mano disillusi. Infatti, in un quadro capitalista, senza messa in discussione dell’accaparramento delle ricchezze da parte delle classi possidenti, i militanti, uomini e donne, dei quartieri popolari hanno constatato con amarezza che li si autorizzava in realtà a “autogestire” le briciole della torta. E che la loro azione rivendicativa era stata anestetizzata, che erano stati accaparrati da studi di documentazione. Come dire che il concetto di “democrazia partecipativa”, con il pretesto di far prendere un bagno di giovinezza alla democrazia, serve soprattutto a costruire del consenso.
Adeline (AL Paris nord est)
NOTE
[1] All’intersezione della politica e dell’arte, la corrente del “théâtre de l’opprimé” (teatro dell’oppresso) è stato iniziato in Brasile, negli anni 60 da Augusto Boal. Sotto diverse forme, ha abbandonato le scene di teatro per proiettarsi sulla strada, cercando l’interazione con gli spettatori attraverso degli intermezzi a carattere sociale.
[2] Jean Foucambert, editoriale della rivista della Association française pour la lecture, Lecture n° 87, settembre 2004.
[3] Jean-Pierre Nossent, “Revenir aux sources de l’éducation populaire”, Politique n° 51, ottobre 2007.
[4] Miguel Benasayag, affermazioni raccolte da Louis Morice, Nouvelobs.com il 29 ottobre 2014.
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