Vanno e vengono commenti di tutti i tipi. La risposta da parte di donne da tutto il mondo è stata l’organizzazione di marce di solidarietà, incontri e attività sotto lo slogan “Ni una menos”. E dall’altra parte si sono manifestate reazioni viscerali da parte di uomini che, volendo giocare all’empatia, avanzano lo slogan assurdo di “nadie menos” (nessuno di meno), evidenziando così che non è tanto facile, nemmeno quando si parla di donne uccise, che gli uomini abbandonino i loro privilegi di dominazione. Oggi è sempre più chiaro che questa guerra silenziosa è una questione di vita o di morte, e la riflessione è il primo strumento che abbiamo per combattere questa lunga storia di dominazione patriarcale.Analizzare ciò che si nasconde dietro questi eventi non è per niente facile, poiché dobbiamo mettere in discussione il senso comune che è profondamente radicato nella società. Vorrei iniziare con una domanda chiave: a chi appartiene il corpo delle donne? Sembra che tutti vogliano possederne almeno una parte: lo Stato obbliga alla maternità attraverso il divieto dell’aborto. Il marito maltratta e trattiene la donna attraverso la dipendenza economica ed emozionale. Il padre decide delle sue figlie attraverso la sua doppia autorità, e lo sconosciuto si sente in diritto di guardare e toccare il corpo della donna quando vuole. D’altra parte, l’idea che siamo soggetti che necessitano protezione e cura, ovvero l’associazione apparentemente ovvia tra femminilità e debolezza, stabilisce un’alleanza tra il ruolo sociale e l’autopercezione della donna, cosa che permette il consolidamento di un vincolo che, visto da vicino, assomiglia ad una schiavitù, ma che fino ad oggi non scandalizza nessuno, se non le femministe più convinte. A questo proposito è significativa la frase di Simone de Beauvoir: “L’oppressore non sarebbe così potente se non trovasse fedeli collaboratrici tra le oppresse”.È come se dovessimo necessariamente appartenere a qualcuno, che sia il padre, il fidanzato, il marito o lo Stato, ad un grado tale di brutalità che la proprietà sul nostro corpo legittima anche il diritto di porre fine alle nostre vite. Questa è la massima autorità del “pater”. D’altra parte, bisogna chiedersi: cos’è che succede alla soggettività maschile che è capace di commettere le atrocità di cui siamo testimoni? Alcuni si appellano all’infermità mentale, ma gli stupratori sono effettivamente tutti uomini psicotici senza coscienza e volontà, o per lo meno, tanto malati da essere giudicati in base alla loro capacità di intendere e di volere? Il numero elevato dei casi di violenza fisica e psicologica contro le donne nel mondo sono tipici di una società profondamente malata. Le giustificazioni individuali di questi fatti che si ripetono sistematicamente non fanno che spostare il punto d’interesse dell’analisi, cosa che si esprime in maniera esemplare nella stampa quando descrive i femminicidi più cruenti come “pazzie d’amore” o “crimini passionali”, dove naturalmente abbondano gli argomenti e i commenti sul vestito indossato dalla donna, sull’eventuale consumo di droghe o sulla sua presunta infedeltà, come giustificazioni perfette per far valere il massimo grado del potere maschile. La difesa della proprietà privata grida: “L’ho uccisa perché era mia”, questione che è presente anche dall’altro lato della medaglia: “Poteva essere mia sorella, mia madre o mia moglie”. Mia. L’invisibilità delle molestie per strada agli occhi degli uomini potrebbe spiegarsi con il fatto che, stranamente, basta un solo uomo in un gruppo di donne perché il codice patriarcale riconosca che l’uomo è il proprietario di quelle donne. Così, praticamente in tutta la storia della civiltà occidentale il corpo della donna è stato utilizzato come merce o come simbolo di sovranità, essendo lo stupro di donne e bambine nei territori conquistati in guerra un ripetuto e doloroso esempio nella nostra memoria.Quali sono le soluzioni? E qui viene il problema più grande. Molti compagni sostengono che sia necessaria una pena esemplare: ergastolo, o pena di morte. Senza dubbio la questione cruciale è che gli uomini non sono capaci di riconoscere i loro privilegi nei confronti delle donne. Sono sempre “altri uomini” che abusano, uccidono o violentano, e sembra non esserci una relazione tra i casi di femminicidio e altre forme più sottili – ma ugualmente violente – proprie della “cultura dello stupro”.
Per esempio, nella marcia di domenica scorsa contro la AFP(1), durante un intervento artistico che proponeva un viaggio attraverso i luoghi comuni che vivono quotidianamente i cileni, come l’umiliazione di fronte al capo e l’insofferenza di fronte all’esclusione, si affermava: “Siamo persone, entriamo in un bar con le nostre gambe, guardiamo e tocchiamo tette e culi caldi”. Quanto è ormai interiorizzato il fatto che l’uomo possa comprare il corpo della donna, sia che passi attraverso la pubblicità che accompagna un prodotto o attraverso un magnaccia in un bordello. Però non bisogna dimenticare che il patriarcato non è solo capitalismo. L’accesso al corpo della donna non è solo mediato dal mercato, e per capirlo possiamo osservare uno spazio dove la relazione commerciale non è presente: la famiglia.Di fronte all’inevitabile mobilitazione sociale delle donne le autorità del governo traboccano d’ipocrisia. Le politiche contro la violenza intrafamiliare sono state inefficaci dalla creazione del Sernam(2) e la legge sul femminicidio in Cile si limita agli omicidi commessi contro la donna che è o è stata coniuge o convivente dell’autore del crimine. La legge sull’aborto dorme in parlamento e il recente Ministero della donna investe in opuscoli sull’uso di un linguaggio inclusivo senza nessuna interpellanza o sanzione ai mezzi di comunicazione che quotidianamente sono complici di una cultura misogina. Le domande le rivolgiamo ora a noi stesse e a noi stessi: perché permettiamo che quotidianamente il sostentamento culturale dei femminicidi venga trattano con ironia? Perché non reagiamo di fronte alla violenza simbolica nello stesso modo in cui reagiamo alle donne assassinate? Perché permettiamo che “Morandé con compañía”(3) riempia gli spazi del tempo libero del popolo lavoratore?
A seguito dei casi di femminicidio che oggi commuovono l’America Latina e il mondo è necessario riflettere profondamente sulle forme in cui riproduciamo il patriarcato e come questi cinquemila anni di dominazione siano profondamente radicati nel nostro senso comune. Non possiamo sottovalutare la possibilità che ci offre il femminismo di osservare e trasformare quello che succede quando il dirigente sindacale, politico o sociale torna a casa; o ciò che succede nelle relazioni sociali delle nostre città. Sfortunatamente è in questa intimità, con la complicità della famiglia, che avvengono gli orrori più grandi. E’ difficile vedere quanto il nemico sia vicino, però i compagni devono assumere e riconoscere i privilegi che ostentano in questa società patriarcale – e abbandonarli, se realmente vogliono lottare per l’emancipazione dell’umanità.
Alle mie sorelle, lamngen(4), e donne di tutto il mondo voglio dire che abbiamo una battaglia da vincere, che è probabilmente la madre di tutte le battaglie: costruire un mondo nuovo, proteggere il territorio, che è il nostro corpo e la nostra terra. Questo è un appello femminista alla costruzione di reti di autodifesa: proteggiamoci, diffondiamo solidarietà tra di noi, nei nostri quartieri, nelle nostre scuole e nelle nostre organizzazioni. Non tolleriamo più questa violenza sistematica. Unite vinceremo!
Melissa Sepulveda
1) AFP (Administradoras de Fondos de Pensiones) sono istituzioni finanziarie private incaricate di amministrare i fondi pensione.
2) Il Sernam (Servicio Nacional de la Mujer) è un organismo che promuove l’uguaglianza delle opportunità tra uomini e donne fondato nel 1990.
3) Programma televisivo cileno con evidenti contenuti sessisti, oggetto di diverse polemiche.
4) “Sorelle” in lingua mapuche.