La vittoria di Trump specchio di un ordine liberale fatiscente
Un terremoto politico ha aperto una faglia che attraversa tutto il mondo. Non ci può essere alcun dubbio che la vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti segni un punto di rottura storico per la politica americana e per l’ordine liberale internazionale fondato sulla scia della Seconda Guerra Mondiale. Le cose semplicemente non saranno più le stesse. Eppure è fondamentale per noi ricordare come questo momento sia l’esito di un periodo di lunga durata.
Negli ultimi anni, i due pilastri del sistema mondiale del dopoguerra – i mercati capitalistici globali e le istituzioni democratiche liberali – sono entrate costantemente in decomposizione sotto i miasmi di una crisi strutturale di finanziarzzazione e di una profonda crisi di legittimazione del sistema politico neoliberale. La scossa del risultato elettorale dell’8 novembre indica che questa duplice crisi è finalmente arrivata al culmine. Lo stesso Trump passerà, ma la crisi di cui egli è l’esito esorbiterà rapidamente e definitivamente anche la capacità di regolamentazione dello Stato più potente nel mondo. Ora ci stiamo rapidamente muovendo verso il tipo di caos sistemico-mondiale predetto dai sociologi Giovanni Arrighi e Beverly Silver a cavallo tra i due secoli.
Qui dovremmo rinunciare immediatamente ad un mito pervasivo e pericoloso: l’ascesa di Trump non può semplicemente essere imputata alle presunte posizioni estremiste ed arretrate della classe operaia americana. Negli Stati Uniti, per lo meno, la corsa al populismo di destra sembra essere più la risposta della classe media alla doppia crisi del capitalismo globale e della democrazia liberale. Come Paul Mason ammette, “Donald Trump ha vinto la presidenza – non a causa della” classe operaia bianca “, bensì perché milioni di cittadini della classe media e cittadini americani istruiti hanno ritrovato nel profondo del loro animo quel sorriso da supremazia bianca e quei concetti che erano stati a lungo messi al bando. Aggiungiamoci una riserva non sfruttata di misoginia “.
E’ stata questa classe media bianca, in particolare gli uomini, che hanno consegnato la presidenza a Trump: la maggior parte di quelli che hanno un reddito annuo inferiore ai 50.000 $ hanno votato per Clinton, mentre la maggioranza di quelli che hanno un reddito superiore hanno votato per Trump. Quasi due su tre uomini bianchi, il 63 per cento in tutto, ha votato per il candidato repubblicano di estrema destra. Ma mentre questi numeri fanno certamente rivelare un’immagine sconcertante del problema del razzismo profondamente radicato nel cuore della società americana, la popolarità di Trump non dovrebbe essere né sopravvalutata né ritenuta naturale. Tutto sommato, Trump ha in realtà raccolto una quota di voto popolare inferiore a quella intercettata da Bush, Romney o McCain.
La domanda che dovremmo porci in questo momento è perchè il ventre razzista degli Stati Uniti si sia improvvisamente aperto così. E qui non possiamo ignorare le complesse interazioni tra fattori culturali ed economici. La letteratura accademica sul nazionalismo e sui sentimenti anti-immigrati ha troppo spesso trattato questo rapporto come una sorta di dicotomia. In realtà, i due termini sono profondamente intrecciati e non possono essere separati l’uno dall’altro: è la paura esistenziale generata da una profonda insicurezza socio-economica che fa riaffiorare profondi e sedimentati pregiudizi etnocentrici. In un clima di ansia pervasiva, alimentato da decenni di ristrutturazione neoliberista e anni di crisi economica, deve essere stato difficile per molti resistere al richiamo di un leader forte e all’individuazione di una serie di capri espiatori.
Assunto che Trump non è chiaramente né carismatico né onesto, già 6 anni fa Noam Chomsky prevedeva sostanzialmente lo sviluppo generale che avrebbe portato un “folle” della destra repubblicana alla vittoria elettorale:
Se si facesse avanti qualcuno che si mostrasse carismatico ed onesto, questo paese si troverebbe in guai seri a causa della propria frustrazione, della disillusione, della rabbia giustificata e dell’assenza di qualsiasi risposta coerente. Cosa sarebbero indotte a pensare le persone se qualcuno dicesse loro ‘Io ho la risposta, abbiamo un nemico’? Lì il nemico erano gli ebrei. Qui il nemico saranno i clandestini e i neri. Ci verrà detto che i maschi bianchi sono una minoranza perseguitata. Ci verrà detto che dobbiamo difendere noi stessi e l’onore della nazione. La forza militare verrà esaltata. Ci saranno persone che verranno picchiate. Questa potrebbe diventare una forza travolgente. E se succedesse sarebbe più pericoloso di quanto accadde in Germania. Gli Stati Uniti sono la potenza mondiale. La Germania era potente ma aveva antagonisti più potenti. Non credo che tutto ciò sia così lontano. Se i sondaggi sono esatti, non saranno i repubblicani, ma i repubblicani di destra, i repubblicani impazziti, quelli che faranno piazza pulita alle prossime elezioni.
In definitiva, la “frustrazione, la delusione e la rabbia giustificata“ che hanno alimentato la vittoria di Trump hanno le loro radici non solo nella gestione pasticciata della crisi finanziaria globale e nella grande recessione che ne è seguita, ma risale ai quattro decenni di globalizzazione economica e ristrutturazione neoliberista che l’hanno preceduta. Questo è un punto cruciale. Dopo tutto, se Trump fosse solo un sintomo della crisi finanziaria, una ripresa economica sostenuta potrebbe nel caso metterlo in difficoltà. Ma se, al contrario, la sua ascesa è in realtà il risultato di un insieme molto più profondo delle contraddizioni del capitalismo globale e della democrazia liberale, i fattori che hanno alimentato la sua vittoria elettorale rischiano di persistere – e la reazione anti-sistema è probabile si intensifichi ulteriormente
Come è noto, ne “La grande trasformazione”, Karl Polanyi ha identificato un insieme molto simile di sviluppi che hanno portato alla rottura dell’ordine mondiale liberale, nei primi anni del ventesimo secolo. Come ebbe a sottolineare, l’ascesa del fascismo non è stato solo il risultato della Grande Depressione, ma ancor più della vasta liberalizzazione dei mercati mondiali nella prima ondata di globalizzazione della fine del diciannovesimo secolo. Per Polanyi, è stato lo “sradicamento” delle relazioni economiche provenienti da tutti i vincoli sociali, la mercificazione di sfere di vita che erano state fino ad allora protette dai “capricci del mercato”, e le profonde insicurezze sociali generate da questa “grande trasformazione” che infine spinsero l’ascesa di movimenti nazionalisti contrari al liberalismo economico – una reazione popolare contro l’alta finanza cosmopolita, personificata dallo stereotipo razzista dell’avido ebreo, nonchè contrari al sistema politico dell’epoca.
Donald Trump, il miliardario magnate immobiliare con il suo stile di vita sontuoso, anticonformista e cosmopolita, non è chiaramente un fascista o nazional-socialista della specie anni ’30. Ma anche se la storia può non ripetersi alla lettera, c’è almeno un aspetto importante per cui la situazione di oggi, fa un po’ rima con quella dei tempi di Polanyi. Ciò a cui stiamo assistendo in questo momento sembrano essere le prime fasi di un processo molto lungo di frammentazione politica, di polarizzazione ideologica e di decomposizione istituzionale che sarà segnata dall’approfondirsi di un caos sistemico e da una crescita del conflitto politico su tutta la linea. Non è del tutto improbabile che questi sviluppi alla fine culmineranno nella progressiva rottura della Pax Americana, proprio come il disordine globale del periodo interbellico tessè le lodi della fine della Pax Britannica.
Questa crisi, però, è strutturale – e Trump non deve essere visto in modo isolato. Tra Brexit, Le Pen, Alternative für Deutschland, Alba Dorata, Geert Wilders e Viktor Orban, l’estrema destra nazionalista è in crescita su entrambi i lati dell’Atlantico. Se includiamo il colpo di stato costituzionale in Brasile ed il contro-colpo di stato di Erdogan in Turchia, si può anche estendere la stessa linea di analisi per i mercati emergenti. Il disordine politico previsto da Arrighi e Silver si sta generalizzando in modo costante. Chiaramente la crisi della democrazia nazionale e la rinascita del nazionalismo economico sono fenomeni internazionali. L’economista politico Mark Blyth fa giustamente riferimento ad essi come “Global Trumpism.”
Questa ondata di rabbia anti-sistema continuerà a diffondersi e dovremmo aspettarci ulteriori onde d’urto nei mesi ed anni a venire – forse più acutamente in Italia, dove il primo ministro Matteo Renzi sembra destinato a perdere un referendum costituzionale entro la fine dell’anno, facendo probabilmente resuscitare la crisi del debito nella zona euro che è stata dormiente da quando i governi dell’UE hanno schiacciato lo scorso anno un altro governo anti-sistema di breve durata come quello greco. Non c’è dubbio, quindi, che il 2016 passerà alla storia come il corollario politico del 2008. La crisi del capitalismo globale e della democrazia liberale continuerà ad approfondirsi, e le cose probabilmente andranno molto peggio e non meglio.
La nostra risposta a questa crisi deve essere guidata dall’osservazione di Walter Benjamin secondo il quale lo sviluppo di ogni fascismo è sempre indice di una rivoluzione fallita. Ora più che mai abbiamo bisogno di una sinistra radicale ed indipendente e di forti movimenti sociali per costruire potere collettivo dal basso. Solo una democrazia radicale può sgombrare le rovine di un ordine liberale in decomposizione e sconfiggere la destra proto-fascista prima che semini danni irreversibili sul nostro pianeta e sulla popolazione mondiale. Questo è il punto in cui noi ci dobbiamo organizzare e drammaticamente intensificare le nostre lotte.
Jerome Roos – ROAR
(traduzione a cura di AL/fdca – Ufficio Relazioni Internazionali)
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