L’Europa del capitale, 60 anni di distruzione di diritti e democrazia -(Roma 1957 – Roma 2017)
Compie 60 anni il processo di costruzione dell’Unione Europea, iniziato nel 1957 e passato attraverso varie fasi che hanno fatto scempio delle buone intenzioni dei vari movimenti federalisti europei e che oggi alimentano -a destra come in certa sinistra- spinte nazionalitarie e sovraniste che non spostano di un millimetro la questione fondamentale fin dalle origini: il parto tutto capitalistico dello spazio europeo.
Il secondo dopoguerra e gli anni del boom economico
Dopo la 2GM, l’Europa era un territorio desolato, con un bilancio di milioni di morti, città distrutte, miseria generalizzata, forte contestazione sociale, Stati in collasso…
La ricostruzione, finanziata ad est dall’URSS e ad ovest dal Piano Marshall statunitense, comporta però una sorta di riduzione degli Stati europei a protettorati delle due superpotenze.
Gli eventi della fine degli anni ’40: inizio della Guerra Fredda nel 1948, la creazione a scopi militari dell’Unione Europea Occidentale sempre nel 1948, la creazione della NATO nel 1949 (e risposta sovietica con il Patto di Varsavia nel 1951) costringono gli Stati europei occidentali in una situazione di debolezza e dipendenza, acuita dalla progressiva perdita dei possedimenti coloniali in Africa ed in Asia e dalla limitatezza dei mercati nazionali di fronte alla concorrenza crescente degli USA, peraltro legittimata dalla nascita dell’OCSE.
Dopo 500 anni l’Europa occidentale non era più il centro del mondo.
Iniziano le pressioni delle élite economiche e finanziarie dell’Europa occidentale sugli Stati di riferimento per affrontare uno scenario di enorme incertezza; Stati che intanto erano diventati (sotto la spinta delle condizioni sociali e delle condizioni geopolitiche) garanti di un nuovo patto tra capitale e lavoro, per gestire il capitalismo keynesiano postbellico.
E’ in queste circostanze che nasce il “progetto europeo”, prima con la costituzione della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, praticamente la messa in comune di tutta l’industria estrattiva e di base) nel 1951 e poi nel 1957 con la firma del Trattato di Roma, quando sei paesi continentali si dotano di un’Unione Doganale e creano la Comunità Economica Europea (CEE).
Francia, Germania Ovest, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo danno inizio alla creazione di un mercato superstatale con l’obiettivo di potenziare le imprese nazionali, in modo da poter competere nelle migliori condizioni su scala europea e mondiale.
Nel corso degli anni ’60 la CEE diventa volano di un’elevata crescita economica con forte base industriale, di un’intensa urbanizzazione con incremento della motorizzazione ed una parallela disarticolazione del mondo rurale tradizionale. Lo sfruttamento della nuova classe operaia permette processi di accumulazione che accrescono le capacità competitive delle imprese della CEE.
Gli anni ’70: la crisi del “dominio dolce”
La crisi del sistema monetario disegnato a Bretton Woods (1944), vale a dire la fine della garanzia aurea per il dollaro (1971) acuisce uno scenario di rivalità tra USA e Stati della CEE. Il tentativo di questi ultimi di dotarsi di una moneta unica per la fine degli anni ’70 crea una forte crisi con gli USA, risolta con la rinuncia della Francia di Pompidou alla moneta europea in cambio dell’eliminazione del sistema di cambi fissi risalente al 1945 (previsto dagli accordi di Bretton Woods).
Dal 1973, il dollaro entra così a far parte delle altre valute mondiali come il marco e lo yen, ma da una posizione di egemonia.
Le due crisi energetiche del 1973 e 1979 acuiscono la recessione e la paralisi economica interna agli Stati CEE, comprendenti dal 1973 anche UK, Irlanda e Danimarca.
L’elezione di Reagan alla presidenza USA e della Thatcher a primo ministro dell’UK aprono la strada ad un capitalismo sempre più globalizzato, basato sul crescente predominio dei loro mercati finanziari e su una profonda ridefinizione del ruolo dello Stato e del rapporto capitale/lavoro che prenderà il nome di neoliberismo.
Inizia lo smantellamento delle conquiste sociali.
Gli anni ’80: la svolta neoliberista
Le imprese europee transnazionali reagiscono.
Riunitesi nella lobby di pressione ERT (European Round Table of Industrialists) ed appoggiate dalle élite finanziarie, spingono Bruxelles affinchè dia inizio ad una svolta liberista anche nella CEE, puntando ad un mercato unico e successivamente ad una moneta unica, quale unico modo per conservarsi e prosperare nel nuovo mondo della globalizzazione produttiva e finanziaria imposta da USA e UK.
La Commissione Europea promuove una profonda svolta nel progetto europeo originario, quello detto del “dominio dolce”.
Il Consiglio Europeo, infatti, approva nel 1985 l’Atto Unico che istituisce un mercato unico per le merci, i servizi, i capitali e le persone (Schengen, inizio della costruzione della “fortezza Europa”) entro il 1993. Lo spazio sociale europeo promesso all’indomani dell’Atto Unico per alleviare i danni del neoliberismo è rimasto uno slogan opportunistico, mentre si instaura la pratica del “dialogo sociale” (poi ripresa da ogni singolo Stato membro al suo interno) con le organizzazioni sindacali della CES per risolvere i conflitti nel mondo del lavoro, senza ricorrere a fastidiosi scioperi e mobilitazioni.
Intanto la CEE si era ampliata con l’adesione della Grecia (1981), della Spagna e Portogallo (1986).
Cade il Muro di Berlino nel novembre 1989 mentre nei paesi dell’Europa dell’Est avvengono le cosidette Rivoluzioni di Velluto.
Gli anni ’90: l’illusione della superpotenza Europa
Nel 1990 viene realizzata l’unificazione della Germania e l’URSS collassa nel 1991.
La svolta neoliberista del “progetto europeo” si rafforza con il Trattato di Maastricht (1991-1993) che prevede la creazione dell’Unione Economica e Monetaria, cioè l’instaurazione di una moneta unica per la fine degli anni ’90 (l’euro entrerà in circolazione nel 2002), con tutti i suoi “parametri di convergenza”, vale a dire dei veri e propri vincoli su rapporto tra deficit pubblico e PIL non superiore al 3%, rapporto tra debito pubblico e PIL non superiore al 60% (Belgio e Italia furono esentati), tasso d’inflazione non superiore dell’1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi.
In più viene introdotto il principio di sussidiarietà che tanto ha contribuito alle privatizzazioni dei servizi pubblici e sociali. In Italia, anche con l’uso capitalistico di molte cooperative che hanno assorbito parte del welfare.
Dopo Maastricht viene assunta la denominazione di Unione Europea (UE).
Il Trattato di Maastricht è la risposta dell’UE alla fine del bipolarismo mondiale, alla globalizzazione che diventava veramente mondiale, sotto il controllo della sola superpotenza USA.
Il tentativo di costruire organismi intergovernativi per la Politica Estera e di Sicurezza Comune e per la Politica Interna di Giustizia Comune al fine di dare protezione politico-militare alla nuova moneta si rivelarono ben presto impraticabili.
Aderiscono nel 1995 Svezia, Finlandia e Austria, ma già dal 1993 si era deciso per una gigantesca espansione ad Est, verso gli ex-paesi membri del Patto di Varsavia.
L’obiettivo era portare nel mercato della UE quasi 100 milioni di nuovi consumatori, sfruttare forza-lavoro qualificata e molto a buon mercato (in vista delle future delocalizzazioni), acquisire imprese e risorse locali e disinnescare il potenziale militare dell’ex-Patto di Varsavia, sottraendo questi paesi all’influenza della Russia.
Operazione complessa ed arrischiata, visti i rapporti di sostegno militare stabiliti tra questi paesi e gli USA che vogliono un ampliamento della NATO verso l’est europeo.
Si consolida l’intento di creare una dimensione imperialistica europea.
Gli anni 2000: il “dominio forte”
Si apre un periodo segnato dalla cosiddetta Strategia di Lisbona che deve permettere una crescita economica. Questa genererà crescenti disuguaglianze sociali e territoriali, attivando una vera esplosione della urbanizzazione, con una ristrutturazione-
E’ il periodo in cui si afferma il dominio dell’agrobusiness sul mondo rurale.
L’attentato di New York del 2001 apre una nuova fase militare nella politica internazionale in cui la UE non sarà capace di trovare una posizione autonoma rispetto all’aggressività degli USA.
Il Trattato di Nizza del 2000 e la nuova Costituzione europea (2004) blindano e consolidano l’Europa neoliberista che non ragiona più in termini di “noi”, ma di “dentro”o “fuori” le regole.
Il processo iniziato alla metà degli anni ’80 porta Bruxelles ad imporre agli Stati membri lo smantellamento dello “stato sociale”, la cessione crescente di competenze, l’instaurazione della disoccupazione cronica e della precarietà.
La pronta risposta giunta già dalla metà degli anni ’90 dal movimento antiglobalizzazione e dai movimenti contro le privatizzazioni di sanità, formazione e sistema pensionistico, contro la dicoccupazione, la precarietà e l’esclusione, portano ad una vera crisi prima e rifiuto poi della “cittadinanza” dentro un’Europa che esclude, precarizza e crea disoccupazione.
Il fronte aperto dal movimento anti-globalizzazione non era contro la moneta unica, ma contro il “dominio forte” del capitalismo liberista europeo ed il “dominio armato” dei singoli Stati membri della UE, coalizzando la classica opposizione di classe con nuove sensibilità sociali ed ambientali che raccoglieranno centinaia di migliaia di attivist* in tutto il mondo, con un forte protagonismo del movimento anarchico.
Purtroppo il portato anticapitalista e socialmente alternativo del movimento antiglobalizzazione non ha avuto il tempo di sedimentarsi livello popolare: la durissima repressione (Genova 2001) e la crisi globale del 2007 lo hanno indebolito, consentendo che maturassero sentimenti “euroscettici” poi evolutisi in formazioni politiche sovraniste e nazionalitarie che da uno scioglimento della UE pensano di riscattarsi dal debito, di tornare a stampare moneta e di murare i confini, ri-alimentando lo statalismo di sempre.
Imperturbabili, le istituzioni europee -sostenute dagli Stati membri- hanno fatto sì che non esista un “immaginario” comune europeo, se non quello fondato sulla paura per “l’altro” sia all’interno che all’esterno dei labili confini della UE.
Nel 2012 viene approvato il famigerato Meccanismo Europeo di Stabilità, il fondo salva-stati a condizioni di prestito durissime, applicato ai famigerati paesi marchiati dallo spregevole acronimo di PIGS.
I PIGS all’interno dell’Unione sono come i migranti che cercano di forzare la “fortezza Europa”: vanno puniti e rinchiusi nel penitenziario del debito se non si possono buttare fuori dall’Europa, salvo pensarne una a due velocità: tema ricorrente invano per tutti gli anni 2000.
La crisi dell’imperialismo europeo appare evidente: per fronteggiare efficacemente lo scontro nel mercato mondiale l’Europa dovrebbe essere unita ma non è ancora capace di esserlo.
Lo stesso UK, dopo la Brexit del 2016, non avrà vita facile nelle trattative per l’applicazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona.
Tutto sommato i sovranisti -a destra come in certa sinistra- fanno il gioco delle istituzioni europee, che non sono altro rispetto agli Stati che le compongono con loro delegati.
Commissione Europea, Consiglio Europeo, Eurogruppo sono semplicemente la proiezione politico-economica degli Stati membri a livello della UE.
Per sciogliere la UE, i sovranisti dovrebbero prima prendere il potere nei loro singoli Stati (sono 27) e poi decidere di uscire, se i costi economici, politici e militari lo permetteranno.
Eppure né Syriza in Grecia, né Podemos in Spagna sembrano sognarsi una cosa simile. Forse hanno fatto una botta di conti.
Il 25 marzo 2017 a Roma
E’ presumibile attendersi che Roma sarà attraversata da manifestazioni federaliste pro-Europa (magari chiedendo modifiche alle politiche attuali) e da manifestazioni della sinistra sovranista no-global insieme a manifestazioni della destra sovranista no-global.
Tuttavia la posta in gioco non è la permanenza o meno nell’euro e/o nella UE e nemmeno il no-global di moda oggi, che non mette in discussione il capitalismo, basta che investa in patria.
Lottare contro le politiche della UE, espressione degli Stati che la compongono, significa riaprire una nuova stagione di lotte anticapitaliste.
Tutto ciò comporta una capacità del movimento libertario di offrire un programma complessivo di obiettivi da raggiungere nei maggiori movimenti sociali ed un ammodernamento delle sue proposte rivoluzionarie.
Dobbiamo dimostrarci capaci di raggiungere la più vasta unità d’azione nella creazione di una mediazione strategica che proponga ed effettivamente inizi a garantire un processo di riunificazione del proletariato, che il capitalismo sta lacerando tramite la disoccupazione, la precarietà e l’esclusione.
Questo processo deve evidentemente prevedere una mediazione tra le politiche rivoluzionarie ed il ciclo di lotte attuali. Comporta la creazione di un’area di opposizione -ben al di là del solo mondo del lavoro, comprendente tutti gli aspetti di antagonismo contro il controllo sociale capitalistico e patriarcale- in cui il proletariato ed i movimenti sociali possano realizzare una crescente quantità di auto-organizzazione e di azione diretta ed in cui il ciclo di lotte possa essere patrimonio socializzabile, tramite un’appropriata relazione tra le esperienze proletarie e le proposte rivoluzionarie.
Non è possibile alcuna strategia che coinvolga le richieste ed i bisogni dei settori sociali oppressi senza assumere la parzialità, senza un farsi altro dal corpo sociale, costruendo alterità organizzativa, autonomia, piattaforme unificanti.
Costruire fronti di lotta sociali (sindacale, ambientale, antirazzisti e per la libera circolazione delle persone, anti-patriarcato, per la costruzione di esperienze alternative dal basso nella produzione e negli scambi) attraverso i confini della UE; costruire fronti di lotta politici specifici dei libertari per sostenere le lotte sociali, sono i compiti da darsi per uscire dai confini della dimensione capitalistica dell’Unione Europea.
Alternativa Libertaria/fdca