Civiltà, primitivismo, anarchismo
Nell’ultimo decennio si è fatta strada una critica generalizzata alla civiltà da parte di alcuni autori statunitensi. Alcuni di loro hanno scelto di dichiararsi anarchici, sebbene essi si percepiscano più in generale come primitivisti. La tesi complessiva che viene avanzata sostiene che la “civiltà” in sé sia il problema prodotto dalla nostra incapacità di vivere nel rispetto della vita. La lotta per il cambiamento diviene così una lotta contro la civiltà e lotta per un pianeta Terra in cui non vi sia più posto per la tecnologia.
Si tratta di una questione interessante che stimola un certo esercizio intellettuale. Sta di fatto, però, che alcuni dei sostenitori di questa tesi hanno usato il primitivismo come una sorta di base da cui criticare tutte le altre proposte finalizzate ad un cambiamento della società. Nell’affrontare tale sfida, gli anarchici hanno bisogno di valutare innanzi tutto cosa ha da offrire il primitivismo per una realistica alternativa al mondo così come lo conosciamo.
Il nostro ragionamento parte dalla constatazione che spesso all’espressione “com’è dura questa vita”, viene risposto che comunque questa vita “è sempre meglio dell’alternativa”. Risposta che diviene una sorta di test generale per tutte le visioni critiche del mondo così come esso si presenta, non esclusa la visione anarchica. Cosa significa chiedersi se sia possibile un’alternativa migliore?
Anche se non possiamo indicare la “alternativa migliore”, non perdono certo valore intellettuale le critiche al mondo così com’è. Ma dopo i disastri del XX secolo, quando le cosiddette alternative come il leninismo non avevano fatto altro che creare dittature durature e responsabili della morte di milioni di persone, oggi la domanda “la vostra alternativa è veramente migliore rispetto all’esistente?” si impone a chiunque si ponga l’obiettivo del cambiamento.
La critica del primitivismo all’anarchismo si basa sulla tesi che sostiene esserci contraddizione tra libertà e società di massa. In altre parole, si sostiene che sia impossibile rinvenire una libera società laddove vi siano società composte da gruppi di esseri umani che vanno oltre la dimensione di un villaggio. Se fosse vera questa tesi, sarebbe impossibile la proposta anarchica di un mondo fatto di “città, paesi e campagne liberamente federati”. Va da sé, infatti, che questi centri abitati costituiscono ovviamente una forma di società e di civiltà.
Ma, fin dal suo sorgere, il movimento anarchico ha sempre dato una risposta a questa cosiddetta contraddizione. Se guardiamo al XIX secolo, troviamo i liberali difensori dello stato che utilizzavano tale contraddizione per giustificare la necessità del governo di alcuni uomini su altri. Mikhail Bakunin così rispondeva nel 1871 nel suo saggio su “La Comune di Parigi e l’idea di stato” (1).
“Si dice che nella società l’armonia e la solidarietà universale tra gli individui non sono in pratica realizzabili a causa dell’esistenza di interessi antagonisti e quindi inconciliabili. A tale obiezione si può rispondere che se tali interessi non sono mai e finora giunti ad un mutuo accordo, lo si deve allo Stato che ha sacrificato gli interessi della maggioranza a vantaggio degli interessi di una minoranza di privilegiati. Ecco perché questa famosa incompatibilità, questo conflitto tra interessi personali ed interessi della società, non è altro che un imbroglio, una menzogna politica, nata dalla menzogna teologica che ha inventato la dottrina del peccato originale al fine di disonorare l’umanità e distruggere il rispetto per se stessi…Noi siamo convinti che tutta la ricchezza dello sviluppo intellettuale, morale e materiale dell’umanità, come pure la sua apparente indipendenza, non siano che il prodotto della vita sociale. Al di fuori della società, non solo l’essere umano non sarebbe libero, ma non sarebbe nemmeno genuinamente umano, cosciente di sé, l’unico essere in grado di pensare e parlare. Solo il combinarsi di intelligenza e lavoro collettivo ha permesso all’essere umano di uscire dallo stato di brutalità selvaggia che costituiva la sua origine naturale, o quanto meno il punto iniziale del suo ulteriore sviluppo. Noi siamo profondamente convinti che l’intera vita degli esseri umani -i loro interessi, le loro tendenze, i loro bisogni, le loro illusioni, persino le loro stupidaggini- non rappresentino altro che la risultante di inevitabili forze sociali. Gli esseri umani non possono respingere l’idea della mutua indipendenza, né possono negare l’influenza reciproca e l’uniformità che mostrano le manifestazioni della natura esterna”
Quale livello di tecnologia
Si tratta di una questione a cui la maggior parte dei primitivisti si sottrae sostenendo che essi non vogliono tornare a nessun livello precedente di tecnologia perché invece vogliono andare avanti. Posizione che può essere riassunta ragionevolmente, dicendo che certe tecnologie sono accettabili nell’ambito di un contesto sociale di piccolo villaggio di cacciatori e raccoglitori. I problemi, secondo i primitivisti, cominciano con lo sviluppo dell’agricoltura della società di massa.
Ovviamente, civiltà è un termine alquanto generico, così come lo è tecnologia. Alcuni primitivisti hanno portato questo ragionamento alle sue logiche conclusioni. Uno di questi è John Zerzan, il quale identifica la radice del problema nell’evoluzione del linguaggio e del pensiero astratto. Siamo così giunti al logico punto conclusivo del rifiuto della società di massa da parte del primitivismo.
Per gli scopi che ci si pone in questo articolo, si assumerà come punto di partenza che la forma di società futura indicata dai primitivisti sarebbe grosso modo simile in termini tecnologici al tipo di società che è esistita sulla Terra circa 12.000 anni fa, poco prima della rivoluzione agricola. Con ciò non si intende dire che i primitivisti intendano “tornare indietro”, cosa del resto impossibile. Piuttosto si intende dire che se si punta a liberarsi da tutta la tecnologia della rivoluzione agricola ed oltre, si deve ipotizzare uno scenario che somiglia abbastanza alle società pre-agricole del 10.000 a.c. Dal momento che tali società sono il solo esempio di società operanti che abbiamo, ci sembra ragionevole partire da esse per comprendere e valutare le tesi primitiviste.
Una questione di numeri
I cacciatori-raccoglitori vengono chiamati così perché vivevano del cibo che riuscivano a catturare o a raccogliere. Gli animali venivano cacciati o presi in trappola, mentre frutta, noci, erbe e radici venivano semplicemente raccolte. Prima di 12.000 anni fa, ogni essere umano viveva così. Oggi solo un piccolo numero di esseri umani vive in questo modo in regioni remote ed isolate del pianeta, nei deserti, nella giungla e nella tundra artica. Alcuni di questi gruppi come gli Acre sono entrati in contatto col resto del mondo solo negli ultimi decenni (2), altri come gli Inuit (3) lo sono da lungo tempo ed hanno adottato alcune tecnologie oltre a quelle che avevano sviluppato da sé. Questi gruppi fanno ormai parte della civiltà globale ed hanno contribuito allo sviluppo di nuove tecnologie in questa civiltà.
Negli ecosistemi marginali la caccia/raccolta rappresenta spesso l’unico modo possibile per produrre cibo. Il deserto è troppo secco per svilupparvi l’agricoltura e l’artico è invece troppo freddo. L’unica alternativa è la pastorizia, poter contare su animali semi-addomesticati come fonte di cibo. Ad esempio, nella Scandinavia artica i Sami controllano i movimenti delle mandrie di renne per procurarsi una regolare fonte di cibo.
I raccoglitori/cacciatori sopravvivono quindi col cibo che riescono a cacciare e a raccogliere. Il che comporta che ci sia una densità di popolazione molto bassa, in quanto una crescita della popolazione è di fatto limitata dalla necessità di evitare un eccesso di caccia. Parimenti un raccolta copiosa di piante da cibo può anche comportare la riduzione del numero di piante disponibili in futuro. Questo è il problema centrale nella visione primitivista di un intero pianeta che viva di caccia e raccolta: e cioè che non ci sia cibo sufficiente che gli ecosistemi naturali possano produrre neanche per una frazione dell’attuale popolazione mondiale che voglia passare alla caccia/raccolta.
Dovrebbe risultare ovvio che la quantità di calorie disponibili per gli esseri umani in un acro di foresta di querce sarà alquanto inferiore alla quantità di calorie disponibile in un acro coltivato a grano. L’agricoltura consente di poter contare su una quantità utile di calorie per acro superiore a quella disponibile in un acro utilizzato per caccia e raccolta. Ecco perché ci sono voluti 12.000 anni per selezionare le piante e migliorare le tecniche agricole al fine di mettere a dimora per acro una quantità di piante la cui energia servisse a produrre parti di piante commestibili piuttosto che parti di piante non commestibili. Basta confrontare ogni vegetale coltivato col suo parente selvatico per capire: la specie da coltivazione darà raccolti più grossi e al tempo stesso più fusto e fogliame. Noi abbiamo selezionato piante che producessero un’alta percentuale di biomassa commestibile.
In altri termini un pino può avere una buona o migliore capacità di catturare l’energia solare rispetto alla lattuga. Ma nel caso della lattuga un’alta percentuale dell’energia catturata diventa cibo (circa il 75%), cosa che non avviene nel caso del pino. Si confronti la quantità di cibo rinvenibile in un vicino terreno boschivo con la quantità di cibo che si può coltivare in un orto grande solo un paio di metri quadrati e persino con una bassa incidenza organica di energia e si capirà perché l’agricoltura è indispensabile per la popolazione del pianeta.
Un acro coltivato a patate con tecniche biologiche può produrre 6.800 kg di cibo (5). Un appezzamento che misuri 65 metri in larghezza e 65 in lunghezza è poco più di un acro.
Si stima che la popolazione umana esistente sulla terra prima dell’avvento dell’agricoltura (10.000 a.c.) variava intorno a poco meno di 250.000 individui (6). Altre stime sul numero di individui dediti alla caccia-raccolta prima dell’agricoltura risultano molto più generose indicando numeri dai 6 ai 10 milioni di esseri umani (7). La popolazione attuale sulla Terra è di circa 6 miliardi di persone.
E’ l’agricoltura che fa da sostentamento a quasi tutti i 6 miliardi di abitanti della Terra. Non potremmo sopravvivere solo con la caccia-raccolta e va aggiunto che persino i 10 milioni di cacciatori raccoglitori che possono essere esistiti prima dell’agricoltura potrebbe non essere un numero sostenibile. Ne sono prova le stragi del Pleistocene (8), dal 12.000 al 10.000 a.c., quando oltre 200 specie di grandi mammiferi si estinsero. Che ciò si sia verificato per un eccesso di caccia resta una un’ipotesi controversa. Se fosse corretta, allora l’avvento dell’agricoltura (e della civiltà) può anche essere dovuta all’assenza di prede che avrebbe costretto i cacciatori-raccoglitori a diventare “sedentari” e a cercare altri modi per procurarsi il cibo.
Di sicuro è accertato storicamente che il medesimo eccesso di caccia è stato dimostrato con l’arrivo dell’uomo sulle isole della Polinesia. Un eccesso di caccia causò l’estinzione del Dodo in Mauretania e del Moa in Nuova Zelanda, per non parlare di molte altre specie meno note.
Vivere nelle paludi in inverno
Per evidenziare un altro aspetto dell’incapacità del primitivismo nel sostenere la popolazione del pianeta, userò come esempio l’Irlanda (il paese in cui vivo). Se fosse lasciata a se stessa, la campagna irlandese si presenterebbe composta da foreste di querce adulte con qualche boscaglia di nocciuoli e paludi. Provate ad entrare in una foresta di querce per vedere quanto cibo riuscite a procurarvi – se sapete il fatto vostro riuscirete a raccogliere delle ghiande, frutti o more nelle radure, dell’aglio selvatico, fragole, funghi commestibili, miele selvatico, ed a procurarvi della carne cacciando animali come il cervo, lo scoiattolo, capre selvatiche e piccioni. Ma tutto ciò significa moltissime calorie in meno rispetto a quelle che darebbe la stessa area se fosse coltivata a frumento o a patate. L’Irlanda, perciò, non riuscirebbe a nutrire i suoi attuali 5 milioni di abitanti, se fossero tutti cacciatori-raccoglitori.
La densità di popolazione dei cacciatori-raccoglitori era di 1 su 10 km quadrati. L’attuale densità di popolazione in Irlanda è di 500 individui per 10 km quadrati, e cioè 500 volte di più. Estendendo questi calcoli standard a tutto il pianeta, il numero di individui che potrebbe essere sostenibile in Irlanda sarebbe meno di 70.000, ma anche meno dal momento che solo il 20% del suolo irlandese è arabile. Le brughiere di torba o le estese carsiche del Burren possono dare ben poco cibo adatto per gli umani. In inverno ci sarebbe pochissimo da raccogliere (forse gherigli di noce nascosti dagli scoiattoli ed un po’ di miele selvatico) ed anche se quei 70.000 sopravvivessero grazie alla caccia, distruggerebbero rapidamente i grandi mammiferi come i cervi e le capre selvatiche. Le aree costiere ed i fiumi più grandi così come i laghi sarebbero l’unica fonte di caccia e di raccolta di crostacei ed alghe commestibili.
Ma pur volendo essere generosi ed assumere che l’Irlanda potrebbe sostenere 70.000 cacciatori-raccoglitori, scopriamo che dovremmo “ridurre” la popolazione a 4.930 individui; il 98,6% in meno. Infatti l’archeologia contemporanea stima intorno ai 7.000 individui la popolazione vivente in Irlanda prima dell’arrivo dell’agricoltura.
L’idea che una certa quantità di terra può sostenere una certa quantità di popolazione in base a come è (o non è) coltivata viene messa in riferimento alla sua “capacità di portata”. Ed è possibile stimarla per l’intero pianeta. Calcoli recenti sui cacciatori raccoglitori danno 100 milioni come cifra massima, ma quanto sia massima questa stima diviene chiaro quando ci si accorge che usando questi metodi di calcolo si giunge a 30 miliardi quale cifra massima (10), cioè 6 volte l’attuale popolazione mondiale!
Ma prendiamo per buona la cifra di 100 milioni massimo invece dei 10 milioni che ci dà la storiografia. Si tratta di una stima generosa, ben al di sopra di quella avanzata dai primitivisti che si sono confrontati con questo tema. Ad esempio, Ann Thropy scrive sulla rivista americana Earth First che “Ecotopia sarebbe un pianeta con circa 50 milioni di abitanti che per sopravvivere si dedicano alla caccia e alla raccolta”. (11)
La popolazione mondiale attuale è di circa 6 miliardi. Un ritorno ad una terra “primitiva” comporterebbe quindi la scomparsa di 5 miliardi e 900mila individui. Deve perciò capitare qualcosa al 98% della popolazione mondiale affinché i 100 milioni di sopravvissuti abbiano anche solo un’esilissima speranza di realizzare un’utopia primitiva.
Gioco sporco?
A questo punto alcuni autori primitivisti come John Moore gridano allo scandalo ed attaccano chi sostiene “che il livello di popolazione ipotizzato dagli anarco-primitivisti verrebbe raggiunto tramite decessi di massa o campi di sterminio in stile nazista. Sono solo tattiche viscide. L’impegno degli anarco-primitivisti nell’abolizione delle relazioni di potere, compreso lo Stato con tutto il suo apparato amministrativo e militare, ed ogni tipo di partito o di organizzazione, significa che una simile ed orchestrata carneficina non solo è impossibile ma è una cosa totalmente orrenda” (12)
Ma John Moore sembra dimenticare che queste “viscide tattiche” sono basate non solo sulle logiche esigenze di un mondo primitivista ma sono anche esplicitamente riconosciute da altri primitivisti. Abbiamo già citato la cifra di 50 milioni di cui scrive Ann Thropy. In un’altra FAQ primitivista si legge “Ci sarà una drastica riduzione della popolazione, sia che la si faccia volontariamente o no. Sarebbe meglio, per ovvie ragioni fare tutto ciò gradualmente e volontariamente, ma anche se non lo facciamo la popolazione umana è destinata comunque ad essere decimata” (13).
La Coalition Against Civilization [Coalizione Contro la Civiltà, ndt] scrive:”Dobbiamo essere realisti su cosa potrebbe accadere una volta entrati in un mondo post-civilizzato. Una cosa certa è che molte persone moriranno in seguito al collasso della civiltà. Benché sia una cosa dura da sostenere sul piano morale, non dovremmo fingere che non sarà così” (14)
Più recentemente, Derrick Jansen in un’intervista sul n°6 di The “A” Word Magazine ha dichiarato che la civiltà “ha bisogno di essere attivamente combattuta, ma io non penso che la si possa abbattere. Ciò che possiamo fare è aiutare la natura nel buttarla giù…Voglio che la civiltà crolli e voglio che accada ora”. Abbiamo già visto prima quali sono le conseguenze del “crollo” della civiltà.
Per farla breve non mancano i primitivisti pronti a riconoscere che il mondo primitivo da essi agognato prevede “morti di massa”. Non ho trovato nessuno che parla di “campi di sterminio in stile nazista”, ma forse John Moore l’ha tirato fuori per intorbidire le acque. Primitivisti come John Moore possono così rifiutare di confrontarsi con la questione delle morti di massa senza vedere le carte ed accusando quelli che indicano la necessità delle morti di massa di tirar fuori “viscide tattiche”. Tocca a lui dimostrare come nutrire 6 miliardi di persone oppure ammettere che il primitivismo non è altro che un gioco intellettuale.
Mi aspetto che chiunque si confronti con questa esigenza delle morti di massa, concluda che il “primitivismo” non offre nulla per cui valga la pena lottare. Solo pochissimi, come i sopravvissuti a confronto con la minaccia nucleare degli anni ’80, potrebbero concludere che tutto ciò è inevitabile ed iniziare a pianificare come i loro amati sopravvivranno quando altri moriranno. Ma quest’ultimo gruppo è andato di gran lunga molto al di là dell’anarchismo come io lo intendo. Per cui il prefisso “anarco” di cui fanno uso certi primitivisti è da respingere senza mezzi termini.
La maggior parte dei primitivisti rifugge dall’idea della necessità delle morti di massa. I più abbottonati dicono che il primitivismo non è un programma per gestire il mondo in modo diverso. Piuttosto esso si pone come critica della civiltà e non come un’alternativa ad essa. Il che sembra abbastanza corretto e vi è senz’altro un valore nel ri-esaminare i presupposti di base della civiltà. Ma in questo caso allora, il primitivismo non si pone come sostituto dell’anarchismo nella lotta per una liberazione che comporta l’uso della tecnologia per i nostri bisogni e non il farne a meno. Il problema è che i primitivisti amano attaccare i vari metodi di organizzazione di massa che si rendono necessari per rovesciare il capitalismo. Il che può apparire anche ragionevole se si crede di avere un’alternativa all’anarchismo, ma piuttosto dannoso se si tratta solo di un approccio critico!
Altri primitivisti si mettono a fare le Cassandre, dicendo che essi sono solo profeti di un destino ineluttabile. Non desiderano affatto che scompaiano 5 miliardi e 900mila esseri umani; si limitano solo a dire che non si potrà evitarlo. Si tratta di posizioni che vale la pena esaminare in modo più approfondito per la loro capacità demoralizzante. A cosa serve infatti lottare per una società più giusta oggi se domani o dopodomani il 98% di noi sarà morto ed ogni cosa che abbiamo costruito ridotta in polvere?
Sarà il nostro destino?
I primitivisti non sono i soli ad usare la retorica del catastrofismo per suscitare il panico ed indurre la gente ad accettare le loro proposte politiche. Ci sono riformisti come George Monbiot che usano simili argomenti “da predestinati” per cercare di disorientare la gente ed indurli a sostenere il riformismo ed il governo mondiale. Negli ultimi decenni è entrata a far parte della cultura dominante l’idea che il mondo sia in qualche modo predestinato, prima con la guerra fredda e poi con annunciati disastri ambientali. George Bush e Tony Blair hanno creato il panico con le armi di distruzione di massa per giustificare l’invasione dell’Iraq. E’ evidente la necessità di esaminare e smantellare l’ideologia del panico.
La forma più convincente di panico da “fine della civiltà” nasce dall’idea di una annunciata crisi delle risorse che renderà impossibile la vita per come la conosciamo. E qual è la risorsa privilegiata per agitare queste tesi? Ovviamente il petrolio. Tutto quello che produciamo, compreso il cibo, dipende da massicci impieghi di energia ed il 40% dell’energia mondiale che si usa nel mondo è generata dal petrolio.
La versione primitivista suona più o meno così: “tutti sanno che nel giro di X anni il petrolio si esaurirà, questo porterà alla fine della civiltà ed alla morte di moltissime persone. Per cui potremmo far nostro l’inevitabile”. L’esaurimento del petrolio viene usato dai primitivisti, così come i marxisti ortodossi usavano la “crisi economica finale che avrà come esito il rovesciamento del capitalismo”. E, al pari dei marxisti ortodossi, i primitivisti non fanno altro che ripetere che la crisi finale è dietro l’angolo.
Se vengono analizzate con cura, queste argomentazioni evaporano e ciò che resta chiaro è che né il capitalismo né la civiltà sono di fronte ad una crisi finale a causa dell’esaurimento del petrolio. Il che non vuol dire che le scorte di petrolio siano inesauribili, dal momento che pare si sia raggiunto il picco di produzione petrolifera nel 1994. In realtà, invece di fine del capitalismo e della civiltà, la limitatezza della risorsa petrolifera costituisce un’opportunità per fare profitti e ristrutturazioni. Il capitalismo, sebbene con riluttanza, si sta indirizzando a trarre profitti anche dallo sviluppo delle fonti alternative di energia, continuando ad avere accesso pieno ma sempre più dissipatorio all’estrazione di combustibile fossile. Peggiori sembrano apparire di conseguenza il riscaldamento globale del pianeta ed altre forme di inquinamento, ma non sembrano aver fermato la classe dei capitalisti di tutto il mondo.
Non sono certo stati i primitivisti ad ipotizzare la crisi del petrolio come crisi finale; ma in sintesi, mentre il petrolio costa sempre di più, col passare dei decenni ha fatto passi avanti lo sviluppo di energie sostitutive. La Danimarca, ad esempio, intende produrre il 50% dell’energia necessaria usando l’eolico entro il 2030 e le compagnie danesi che producono le turbine per l’eolico sono aziende leader nel settore e fanno notevoli profitti. La fine del petrolio sembra così essere più un’opportunità di profitti per il capitalismo che non la sua crisi finale. Ci può ben essere una crisi energetica se il costo del petrolio continua a crescere e se le tecnologie alternative non sono ancora in grado di garantire quel 40% di energia oggi erogato dal petrolio. Ulteriori aumenti del prezzo del petrolio comportano rialzi dei prezzi dell’energia, ma una crisi danneggia i poveri del mondo e non certo i ricchi, che invece ne traggono profitto a iosa. Una severa crisi energetica potrebbe innescare una crisi economica globale, ma ancora una volta in questi casi sono i lavoratori del mondo ad esserne le vittime. E’ senz’altro un valido argomento quello che sostiene che l’elite mondiale si sta già preparando ad un simile scenario, per cui molte delle recenti guerre americane acquistano senso in termini di assicurarsi scorte di petrolio per le corporations degli Stati Uniti.
Il capitalismo è perfettamente in grado di sopravvivere ad una crisi molto distruttiva. Durante la 2GM molte delle maggiori città europee furono distrutte e la maggior parte dei centri industriali dell’Europa Centrale pesantemente colpiti (dai bombardamenti, dalla guerra, dalla ritirata germanica e poi recuperati e spediti ad est dall’avanzata russa). Milioni di lavoratori europei sono morti in seguito sia durante gli anni di guerra che in quelli successivi. Ma il capitalismo non solo è sopravvissuto, è rifiorito grazie alla miseria che permetteva salari da fame e profitti in crescita.
E se?
Tuttavia vale la pena discettare su quest’idea dell’esaurimento del petrolio. Se non ci fosse davvero nessuna alternativa, cosa potrebbe accadere? Si affermerebbe l’utopia primitivista anche all’amaro prezzo di 5 miliardi e 900mila morti?
No. I primitivisti tendono a dimenticare che noi viviamo in una società di classe. La popolazione della terra è divisa tra pochi che hanno immense risorse e immenso potere ed il resto di noi. Non ci sarà nessun accesso equo alle risorse, quanto piuttosto un accesso ancora più incredibilmente iniquo. Tra coloro che cadrebbero vittime delle morti di massa non ci sarebbero Robert Murdoch, Bill Gates o George Bush, perché costoro hanno i soldi ed il potere di monopolizzare le scorte rimaste per se stessi.
Invece i primi a morire in grande quantità sarebbero i più poveri della megalopoli del pianeta. Il Cairo ed Alessandria d’Egitto hanno insieme una popolazione di circa 20 milioni di persone. L’Egitto dipende dalle importazioni di derrate alimentari e dalle coltivazioni intensive della valle del Nilo e delle oasi. Fatta eccezione per la piccola elite di ricchi, quei 20 milioni di persone non saprebbero dove andare e non ci sarebbe più terra da coltivare. Gli attuali raccolti favorevoli sono in parte dovuti ad alte immissioni di energia a basso costo.
Le morti di massa di milioni di persone non sono qualcosa che riesce a distruggere il capitalismo. Anzi in certi periodi sono state viste come un fatto naturale positivo e desiderabile per la modernizzazione del capitale. La carestia di patate del 1840 che ridusse la popolazione irlandese del 30% venne vista favorevolmente dai difensori del libero commercio (16). Lo stesso fu per la carestia che colpì il Bengala colonia britannica nel 1943-44, quando morirono 4 milioni di persone (17). Queste morti di massa, specialmente nelle colonie, sono sempre state per la classe capitalista un’opportunità per ristrutturare l’economia senza trovare alcuna resistenza.
L’esito reale di una “fine dell’energia” vedrebbe i nostri governanti stoccare ciò che rimane delle fonti energetiche per far andare gli elicotteri armati che userebbero contro quelli di noi abbastanza fortunati da essere selezionati per faticare nei campi di biocombustibile. La sfortunata maggioranza verrebbe tenuta lì dove si trova, libera di morire. Uno scenario più da Matrix che da utopia.
Un altro punto che va detto è che le distruzioni rigenerano il capitalismo. Che piaccia o no, le distruzioni su vasta scala permettono al capitalismo di fare un sacco di soldi. Si pensi alla guerra in Iraq. La distruzione delle infrastrutture irachene è un disastro per la popolazione irachena, ma è un affare da grandi profitti per la Halliburton & co. (18). Non è una coincidenza che la guerra in Iraq stia aiutando gli USA, dove del resto hanno sede le più grandi corporations, ad acquisire il controllo su parti del pianeta in cui si trova la produzione attuale e futura di petrolio.
Possiamo far fare ancora un giro al nostro giuoco intellettuale. Fingiamo che alcuni anarchici vengano magicamente trasportati dalla Terra su un altro pianeta Terra altrove. E ci si trovi lì senza alcuna tecnologia. I pochi primitivisti fra di noi potrebbero dannarsi ad inseguire i cervi, ma una buona percentuale si organizzerebbe per costruire una civiltà anarchica. Molte della abilità che abbiamo non sarebbero utili (saper programmare senza un computer è di poca utilità), ma tra di noi avremmo buone conoscenze di base dell’agricoltura, dell’ingegneria, dell’idraulica e della fisica. Al loro ritorno dopo aver vagabondato in giro, i primitivisti troverebbero che l’area in cui ci siamo insediati è diventata un paesaggio di fattorie e dighe. Avremmo almeno carri con le ruote e possibilmente animali da tiro, se ci fossero specie allo stato brado idonee all’addomesticamento. Manderemmo squadre alla ricerca di giacimenti di carbone e ferro e qualora li trovassimo faremmo delle miniere e trasporteremmo il minerale. Altrimenti bruceremmo legname per farne carbone o estrarremmo ferro e rame da ciò che si può trovare. Ci sarebbero anche una fornace ed una fonderia in quel paesaggio. Abbiamo certe conoscenze mediche, fra cui la conoscenza dei germi e dell’igiene medica, così da poter purificare l’acqua ed organizzare i sistemi di scarico delle acque reflue.
Consapevoli dell’importanza della conoscenza avremmo un sistema educativo per i nostri figli e almeno le basi di una bagaglio di conoscenze a lungo termine (libri). Troveremmo probabilmente gli elementi abbastanza comuni per fare la polvere da sparo che ci darebbe la tecnologia esplosiva necessaria per aprire miniere e fare costruzioni. Se fosse disponibile del marmo potremmo fare del calcestruzzo, che è materiale da costruzione migliore del legno o del fango.
La tecnologia non è un dono degli dei. Non proviene all’umanità da una misteriosa forza esterna. E’ invece qualcosa che abbiamo sviluppato e che continuiamo a sviluppare. Anche se si riportasse l’orologio indietro, sentiremmo subito il tic tac che lo rimanda avanti. John Zerzan sembra essere il solo primitivista ad aver compreso tutto ciò ed ha ritirato le sue posizioni che vedevano nel linguaggio e nel pensiero astratto l’origine dei problemi. Egli è nel giusto, ma anche tragicomico. La sua visione dell’utopia richiede non solo le morti di massa nella popolazione mondiale ma anche una lobotomia da ingegneria genetica per i sopravvissuti e per la loro progenie. Ovviamente non si tratta di cose che egli sostiene, ma sono il logico punto finale del suo argomentare.
Perchè prendersela tanto a cuore?
Ebbene, perché impegnarsi nella demolizione di una ideologia così fragile come il primitivismo? Una ragione è questa imbarazzante connessione con l’anarchismo che certi primitivisti rivendicano. Poi è importante denunciare che il primitivismo, per le implicazioni che comporta e per le sue tesi, vuole che i suoi seguaci rigettino il razionalismo a favore del misticismo e della unione con la natura. Non è certo il primo movimento irrazionalista ed ecologico a fare così, un buon terzo del partito nazista tedesco veniva dal culto del sangue nei boschi e dai movimenti del suolo che sorsero in Germania dopo la 1GM.
Non si tratta di un pericolo vuoto. All’interno del primitivismo si è fatta strada un’ala autoproclamatasi irrazionale, la quale se non dichiara di voler fare “campi di sterminio in stile nazista”, ha però apertamente celebrato la morte e l’omicidio di grandi numeri di persone come una sorta di primo passo.
Nel dicembre 1997, la pubblicazione statunitense Earth First scriveva che “l’epidemia di AIDS non è un flagello, ma è uno sviluppo benvenuto nell’inevitabile processo di riduzione della popolazione umana” (19). Nello stesso periodo in Gran Bretagna, Steve Booth, uno degli editori della rivista Green Anarchy, scriveva che:
“I bombaroli dell’Oklahoma avevano avuto l’idea giusta. Peccato che non fecero esplodere più gli uffici governativi. Anche così, avevano fatto quello che potevano ed ora ci sono almeno 200 automi del governo che non sono più in grado di opprimere.
Il culto sarin di Tokyo aveva avuto l’idea giusta. Peccato che nell’aver testato il gas un anno prima dell’attacco, si tradirono. Non erano un gruppo abbastanza segreto. Avevano la tecnologia per produrre il gas, ma il metodo di erogazione era inefficace. Un giorno i gruppi saranno totalmente segreti ed i loro metodi di gassificazione saranno completamente efficaci” (20).
Ecco dove si finisce quando si celebra la superiorità della spiritualità sulla razionalità, quando la speranza di “correre coi cervi” surclassa il bisogno di confrontarsi con il problema di fare la rivoluzione in un pianeta di 6 miliardi di persone. Le idee che abbiamo visto non possono che avere conclusioni reazionarie. La loro logica è elitaria e gerarchica, poco più di una versione semi-secolare di prescelti dagli dei in cerca di adepti. Certamente non hanno niente in comune con l’anarchismo.
Ci serve più e non meno tecnologia
Il che ci riporta al principio. La civiltà comporta molti problemi, ma è meglio dell’alternativa. La sfida per gli anarchici è trasformare la civiltà in una forma senza gerarchia, o bilanciata nei poteri e nella ricchezza. Non c’è una nuova sfida, è sempre stata la stessa sfida dell’anarchismo, come detto con la citazione di Bakunin all’inizio.
Per far ciò abbiamo bisogno della tecnologia moderna per pulire le acque, smaltire e riciclare i rifiuti, vaccinare e curare la gente contro le malattie delle aree densamente abitate. Se fossimo 10 milioni di persone sulla terra, uno può anche defecare nei boschi e continuare a muoversi. Ma siamo 6 miliardi e quelli che defecano nei boschi stanno defecando nelle acque che loro e quelli attorno a loro dovranno bere. Secondo l’ONU “ogni anno, più di 2,2 milioni di persone muoiono per malattie contratte attraverso l’acqua, molti di loro sono bambini”. Quasi un miliardo di persone che vivono in centri urbani non ha accesso all’igiene sanitaria. In “43 città dell’Africa…l’83% della popolazione non ha bagni collegati alla rete fognaria”. (21)
La sfida allora non è semplicemente la costruzione di una civiltà che mantenga gli attuali livelli. La sfida è migliorare gli standard di vita di ciascuno in un modo che sia ragionevolmente sostenibile. Solo un ulteriore sviluppo della tecnologia connesso ad una rivoluzione può eliminare la disuguaglianza in tutto in pianeta.
E’ una sfortuna che alcuni anarchici che vivono nelle nazioni più sviluppate, più ricche e più tecnologizzate, preferiscano gingillarsi con il primitivismo anziché impegnarsi a pensare come possiamo cambiare veramente il mondo. La trasformazione globale che si renderà necessaria renderà insignificanti tutte le rivoluzioni precedenti.
Il maggior problema non è semplicemente che il capitalismo gode nel lasciare una quantità enorme di popolazione mondiale in uno stato di povertà. Il problema è anche che lo sviluppo viene indirizzato a creare dei consumatori dei futuri prodotti piuttosto che a soddisfare i bisogni delle persone.
I trasporti ne sono un eclatante esempio. Esiste una varietà di trasporti di massa che possono spostare grandi numeri di persone da un posto ad un altro a grande velocità. Eppure nell’ultimo decennio il capitalismo si è concentrato su forme di trasporto che usano più risorse pro-capite sia in termini di mobilità che di efficienza. E’ l’automobile individuale. Lo sviluppo urbanistico è a misura dell’automobile individuale e questa è mezzo obbligatorio per spostarsi in città come Los Angeles.
Questa forma di trasporto non è una soluzione per la maggior parte della popolazione mondiale. E non solo perché la maggior parte delle persone non può permettersi un’automobile. Le risorse utilizzate nella costruzione di 3 miliardi di automobili per ogni adulto abitante sul globo semplicemente non sono disponibili. Né ci sono le risorse (petrolio) per far funzionare tutte queste automobili.
Ma prendere atto delle tecnologie esistenti e di quelle che verranno non significa affatto continuare con la produzione capitalistica o con i suoi metodi, magari sotto la bandiera rosso&nera. Così come sarà compito della futura società anarchica abolire un’organizzazione alienante della produzione basata sulla catena di montaggio, ugualmente sarà necessario cambiare radicalmente la natura dei prodotti. Restando a livello dei trasporti, per fare un facile esempio, occorrerà ridurre la produzione di auto per incrementare invece quella di biciclette, motorini, treni, autobus, camion e pulmini.
Dal momento che non sono né un esperto di trasporti, né un lavoratore dell’industria dei trasporti, mi sono limitato semplicemente ad ipotizzare quali potrebbero essere i cambiamenti nel settore. Dovremmo essere altresì consapevoli che al di fuori dell’occidente la necessità dei trasporti viene risolta in modi molto meno individualistici. Solo i ricchi possono permettersi un’auto, ma la grandissima parte della popolazione spesso si può muovere abbastanza velocemente da un posto all’altro usando non solo le corriere o i treni ma anche un diffuso sistema di taxi collettivi o di pulmini che collegano le città e sono sempre affollati.
Questa è la sfida per l’anarchismo. Non solo abbattere l’attuale ordine mondiale capitalistico, ma anche lavorare per la nascita di un nuovo mondo. Un mondo che sia almeno capace di garantire accesso uguale ai beni, ai trasporti, alla salute ed all’istruzione, cose che oggi risultano accessibili alla “classe media” nei paesi scandinavi.
Sarà questa nuova società che deciderà quali nuove tecnologie saranno necessarie e quali di quelle esistenti dovranno essere mantenute per affrontare la sfida di un mondo nuovo. E’ probabile che alcune tecnologie, se non verranno scartate, diverranno comunque obsolete. E’ difficile pensare che si possa felicemente decidere di costruire ad esempio nuove centrali nucleari. Gli alimenti OGM, una volta eliminata la possibilità di grandi profitti per le grandi corporations dell’agro-biotech, dovranno dimostrare di portare più benefici che pericoli. Finché il capitalismo esisterà, continuerà il disastro ambientale finalizzato ai suoi profitti. E risponderà efficacemente alla crisi energetica solo quando essa sarà fonte di profitti, dal momento che finché si prevedono molti anni prima che il petrolio possa essere sostituito, non ci sarà altro che un aumento della povertà e dei morti tra le popolazioni più diseredate nel mondo. Ma noi non possiamo circoscrivere questi problemi sognando una sorta di età dell’oro in cui la popolazione umana sia abbastanza contenuta da potersi dedicare alla caccia e raccolta. Possiamo invece uscire da questa situazione solo costruendo quei movimenti di massa che non solo rovesceranno il capitalismo ma che apriranno la strada alla società libertaria. E nel mentre abbiamo bisogno di trovare le modalità per fermare e persino rendere reversibili alcune delle peggiori minacce ambientali che il capitalismo ha generato.
Il primitivismo è un’illusione – esso non dice nulla su come proseguire nella lotta per una società libera. Spesso i suoi sostenitori finiscono per minare questa stessa lotta attaccando quegli aspetti imprescindibili, come l’organizzazione di massa, necessari per poter vincere. E tra i primitivisti, quelli più seri rispetto alla necessità di cambiare il mondo, è bene che rivedano per cosa stanno lottando.
Andrew Flood
11 giugno 2004
Traduzione a cura di FdCA – Ufficio Relazioni Internazionali
l’articolo originale su http://www.anarkismo.net/newswire.php?story_id=1451,
L’autore è un militante del Workers Solidarity Movement, organizzazione comunista anarchica dell’Irlanda
http://www.struggle.ws/wsm
NOTE:
1 http://flag.blackened.net/daver/anarchism/bakunin/paris.html
2 http://www.guardian.co.uk/Columnists/Column/0,5673,234225,00.html
3 http://www.heritage.nf.ca/aboriginal/inuit.html
4 http://www.yukoncollege.yk.ca/~agraham/nost202/norwaysami.htm
5 http://www.gardensofeden.org/04%20Crop%20Yield%20Verification.htm
6 http://biology.queensu.ca/~bio111/pdf%20files/lect9-human-demography-1.PDF
7 http://qrc.depaul.edu/lheneghan/ENV102/env102Lecture8.htm
8 http://geography.berkeley.edu
9 http://qrc.depaul.edu/lheneghan/ENV102/env102Lecture8.htm
10 http://www.google.ie/search?q=cache:SC6WTwBCazUJ:library.thinkquest.org/ C003763/index.php%3Fpage%3Dterraform03+maximum+hunter+gather+population&hl=en&ie=UTF-8
(spiacente per il lunghissimo URL ma la pagina non è direttamente accessibile)
11 “Miss Ann Thropy,” Earth First! Dic. 22, 1987, citato in http://www.processedworld.com/Issues/issue22/primitive_thought.htm
12 http://www.eco-action.org/dt/primer.html A Primitivist Primer, di John Moore
13 http///www.eco-action.org/spellbreaker/faq.html
14 The Practical Anarcho-Primitivist: attualizzare le implicazioni di una critica -Coalition Against Civilization, in internet alla pagina http://www.coalitionagainstcivilization.org/speciestraitor/pap.html
15 Numero 6 di The ‘A’ Word Magazine, testo dell’intervista anche online in http://www.infoshop.org/inews/stories.php?story=04/02/11/5876278
16 http://struggle.ws/ws95/famine45.html
17 http://www.abc.net.au/rn/science/ockham/stories/s19040.htm
18 Per una critica ragionata del collassismo secondo la prospettiva di Green Anarchist vedi http://pub47.ezboard.com/fanarchykkafrm1.showPrevMessage?topicID=372.topic
19 Earth First!, Dic. 22, 1987, citato in http://www.processedworld.com/Issues/issue22/primitive_thought.htm
20 Green Anarchist, numero 51, pag. 11, una difesa di questi rilievi pubblicata nel Numero 52. L’ autore Steve Booth era un editore di Green Anarchist (e pure tesoriere) all’epoca
21 http://www.unhabitat.org/global_water.asp