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SUL “SOCIALISMO DEL XXI SECOLO” – Una analisi

E’ difficile  intervenire in dibattiti polarizzati come quello in corso sul Venezuela, laddove si susseguono interventi unilaterali che sostituiscono cronache partigiane all’analisi dei fatti, esigendo a gran voce l’assunzione di posizioni nette, a favore o contro Maduro per intenderci.

Anche il termine “socialismo del XXI secolo” non contribuisce alla chiarezza poiché viene variamente declinato in base agli intenti di chi lo realizza, di chi lo condivide e se ne fa in qualche modo portavoce o di chi lo avversa screditandolo.

Ora noi non siamo intenzionati a dimostrare professoralmente come e quando la transizione politica e sociale in atto in Venezuela “si allontani dal solco rivoluzionario”, conseguentemente comminando condanne e assoluzioni.

Intendiamo piuttosto evidenziare come le transizioni politiche e sociali che coinvolgono attivamente il proletariato nel suo lento processo di emancipazione siano imprevedibili, dense di contraddizioni e di insidie e come, in ogni caso, debbano essere analizzate nelle loro implicazioni storiche e nella loro concreta essenza sociale iniziando, proprio per quanto concerne il Venezuela, dalla consapevolezza che la critica a Maduro è comunque la critica a un processo in atto nel “cortile di casa” dell’imperialismo nord americano, e chi vive direttamente questa transizione risulta inevitabilmente soggetto a condizionamenti che complicano alquanto la formulazione di analisi obiettive e compiute.

A queste compagne e a questi compagni va la nostra solidarietà e il nostro non falso rispetto, quello che abbiamo per coloro che vivono i processi reali e ne subiscono le conseguenze: ma chi è al di fuori di simili contesti, e intenda comunque analizzarli, ha l’obbligo inevitabile di formulare analisi che non si risolvano nella sola cronaca delle conquiste e delle derive del “Socialismo bolivariano” (d’ora in poi, per brevità SB).

Le note che seguono costituiscono quindi solo un approccio al fenomeno, per rilevare come gli argomenti dei suoi sostenitori non procedano in senso autenticamente socialista e libertario così come si proferisce con irritante disinvoltura, ma ripieghino nel solco usurato del “socialismo in un’unica nazione” e continuino a agitare con irresponsabilità lo spauracchio del “nemico esterno” per nascondere quello interno, come detta un’antica tradizione bolscevica di ispirazione socialdemocratica, evidentemente ancora ben piantata nella sinistra italiana.

Continueremo quindi con una breve disamina del SB, allo scopo di evidenziare le sue caratteristiche interclassiste e nazionali che si sono definite nell’ambito della tradizione antimperialistica storica, ancora ben viva in America Latina, tradizione che comunque non costituisce alcuna valenza socialista.

Molti dei contribuiti che si sono susseguiti al riguardo del SB lanciano esplicite accuse di “fascismo” nei confronti di questa esperienza; altri invece la difendono acriticamente e con autentico furore ideologico. Nella discussione trovano poi spazio anche posizioni intermedie di sostegno critico, che indugiano nella polemica con l’intento di contrastare una certa sinistra di governo, centrista per necessità e vocazione, sazia e supponente che, alla fine, recuperando dalla stampa padronale stantie categorie democraticistiche, si risolve sempre e comunque contro Maduro. In ogni caso gli argomenti dei sostenitori del SB ci consentono di rilevare il progressivo affermarsi di un certo modo di concepire il socialismo e i suoi nemici, tipico della sinistra storica del ‘900 e dei suoi gravi limiti.

Infatti se leggiamo, o rileggiamo, i pronunciamenti dei principali dirigenti del Partito Comunista Italiano (PCI) successivamente alla rivolta d’Ungheria del novembre del 1956 notiamo che oggi, almeno in Italia, sta maturando un clima analogo che aderisce ai pronunciamenti all’epoca formulati dai vari Togliatti, Ingrao e Paietta che si schierarono dalla parte dell’URSS in quanto, a loro dire, con la repressione armata della rivolta questa difendeva il socialismo dall’aggressione imperialista occidentale (1).

La questione assumeva poi maggior rilievo in considerazione che tali pronunciamenti non erano solo personali opinioni, ma rispecchiavano la posizione ufficiale del PCI sulla questione ungherese, posizione che era evidentemente dettata da Mosca a difesa dei suoi rilevanti interessi di potenza.

Il limite di questa unilaterale impostazione storica che già fu del PCI e che definiamo terminale, nel senso che risaliva alla sia pure avariata tradizione bolscevica, consisteva proprio nel considerare la dimensione imperialistica mondiale come uno scontro tra modelli che nel 1956 ancora si pretendeva essere opposti: il modello capitalista occidentale da condannare e quello socialista dell’URSS che, a ragione, rappresentava “il socialismo del XX secolo”, da difendere con intransigenza, conseguentemente: screditando il socialismo si finiva, “oggettivamente” per fare il gioco dell’imperialismo, in una certa sintonia con quanto oggi viene proferito dai sostenitori acritici del SB.

Al riguardo i nostri compagni dei Gruppi Anarchici di Azione Proletaria (GAAP) tracciarono, già nel 1950, un lucido bilancio della deriva del socialismo sovietico: “nella storia dell’Internazionale Comunista… l’organizzazione è ingaggiata in forma sempre più impegnativa sul piano della politica estera dell’URSS: politica estera che traduce in spinta imperialistica esterna il processo di restaurazione capitalistica in atto all’interno dello stato sovietico..”(2).

I tempi sono evidentemente cambiati: ma la contrapposizione ideologica “socialismo/imperialismo”, che nel corso del ‘900 difese gli interessi del capitalismo di stato sovietico e della politica imperialistica dell’URSS continua a sussistere immutata e, incurante dei guasti provocati costituisce un allarmante regresso che è opportuno analizzare allo scopo di scongiurarne il replicarsi perché, oggi come ieri, l’evidente aggressività del nemico esterno non può nascondere le insidie che si celano anche all’interno di un processo rivoluzionario.

Il mutamento dei rapporti di proprietà (dai privati allo stato) non ha mai implicato il ribaltamento qualitativo e stabile dei rapporti di produzione, che sono rimasti saldamente nelle mani dei capitalisti. In altre parole: le nazionalizzazioni per quanto profonde dei sistemi di produzione non costituiscono alcuna edificazione socialista: queste non devono essere sottovalutate, ma non la rappresentano.

Anche oggi, come nel 1956, non esistono soggetti imperialisti esterni da condannare e combattere e soggetti socialisti da agevolare e difendere. Esiste invece, oggi come ieri, un’unica contesa tra potenze imperialiste in lotta per il dominio dei mercati mondiali.

Così come non è mai esistito “il capitalismo in un paese solo”, perché il capitalismo è per sua natura un fenomeno che tende all’universalizzazione, anche l’imperialismo si è affermato in tutto il mondo sia pure in modo diseguale, alternando sviluppo a sottosviluppo e accentuando la sua dimensione unitaria.

Nel mondo non è quindi mai esistito un altro sistema economico e sociale compiuto opposto al capitalismo nella sua configurazione imperialista, così come questa ha iniziato a manifestarsi alla fine del 1800 costruendo le sue ideologie, i suoi modelli e le rispettive sovrastrutture economiche, politiche e istituzionali:

– il modello capitalistico privatistico che ha storicamente caratterizzato le principali potenze democratiche borghesi occidentali:

– il capitalismo di stato nelle sue varie articolazioni storiche compiute, sia pure tra loro antagonistiche (fascismo; stalinismo), alle quali corrisponde la necessità di porre lo stato quale motore dello sviluppo capitalistico.

Ma a ben guardare, poi, le cose si intersecano, così come avviene nei processi reali: il New Deal del democratico Roosevelt non era poi mal visto dal primo nazionalsocialismo e Churchill manifestò un indubbio e non solo iniziale interesse per il fascismo italiano. D’altronde J. M. Keynes individuò proprio nel ruolo dello stato il principale motore anti crisi (investimenti pubblici) alla stregua dei regimi fascisti in Italia e in Germania. Con questo non si può affermare che democrazia borghese, stalinismo e fascismo siano fenomeni equivalenti perché replicheremmo un grave errore tipico dell’estremismo storico e non sarebbe possibile comprendere l’evoluzione del fenomeno imperialistico.

La democrazia borghese, il fascismo e il nazionalismo nelle sue innumerevoli varianti, lo stalinismo che già verso la fine degli anni ’20 del novecento aveva iniziato a manifestarsi sotto varie forme in Europa, Americhe e Asia, (costituzione de partiti comunisti di osservanza sovietica, costituzione e ruolo della III Internazionale comunista), sono il prodotto di fasi diversificate dello sviluppo capitalistico laddove le borghesie dei rispettivi paesi ai diversi livelli di sviluppo utilizzavano, per affermarsi e prosperare, gli strumenti teorici, politici, organizzativi e istituzionali che avevano concretamente a disposizione e che erano riusciti a costruire in relazione ai contesti storici nei quali operavano.

E’ questa particolarità che spiega l’aquila azzurra del New Deal negli Usa, il fascio littorio e la croce uncinata in Italia e in Germania e la falce e martello in URSS.

Ma non tutto è così semplice perché, come abbiamo detto, le cose si intersecano e allora si deve ricorrere a un ulteriore riferimento per capire l’origine e l’affermarsi del “socialismo in un’unica nazione” e i suoi ulteriori e diversificati sviluppi che ci conducono fino alle luci e alle ombre del SB: questo riferimento è il “bonapartismo”.

Un concetto coniato da Marx e da Engels attorno al 1869 (si veda “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”). Successivamente, nel 1884, Engels ci fornisce una formulazione chiara del fenomeno:

“vi sono dei periodi in cui le classi in lotta hanno forze pressoché uguali, cosicché il potere statale, in qualità di apparente mediatore, momentaneamente acquista una certa autonomia di fronte a entrambe… così il bonapartismo del primo e specialmente del secondo impero francese che si valse del proletariato contro la borghesia e della borghesia contro il proletariato…”( 3)

Nonostante che il proto fascismo tendesse a spostare lo scontro di classe in scontro tra nazioni povere e nazioni ricche (“plutocrazie democratiche occidentali”) assumendo contenuti socialisteggianti, non si possono definire sbrigativamente “fascisti” i regimi bonapartisti che si ammantano di antimperialismo, perché il fascismo ha caratteristiche precise e, nel suo affermarsi, manifesta una politica estera aggressiva, incatena e opprime la classe operaia relegandola in ambiti rigidi tramite lo stato totalitario, che abolisce e perseguita ogni sorta di opposizione e di dissenso. Le stesse politiche sociali destinate, in generale, alle classi subalterne con l’evidente scopo di fidelizzarle convivono quindi con la repressione sanguinosa di ogni forma di opposizione politica e sociale.

Questo, obiettivamente, in Venezuela non è ancora avvenuto con la sistematicità e l’efficienza propria dei regimi fascisti. Quindi ogni paragone che intenda equiparare Chavez e Maduro con Mussolini (ma anche con Videla e Pinochet) è privo di ogni fondamento storico.

In URSS il fallimento della rivoluzione in occidente comportò, per Lenin, un obiettivo ripiegamento in quel salvataggio della rivoluzione dentro i confini dell’URSS che iniziò a sacrificare per sua esclusiva difesa gli interessi del proletariato mondiale, e che costituì la premessa del successivo affermarsi della controrivoluzione staliniana.

In URSS il processo che condusse a privilegiare gli interessi nazionali su quelli del proletariato mondiale non inizia con la morte di Lenin (1924) e la successiva affermazione dello stalinismo, ma con il trattato di Brest Litovsk (1918); prosegue con la rivoluzione turca (1920) e si rafforza poi ulteriormente con l’istituzione della NEP (1921) e con il trattato di Rapallo (accordo URSS, Germania) del 1922.

C’è da dire che se tutte queste scelte risultavano comprensibili in considerazione dell’aggressione imperialistica e della guerra civile (1918 – 1921), unitamente alla catastrofica condizione economica e sociale della Russia post rivoluzionaria, esse contraddicevano oggettivamente il processo di innesco della rivoluzione mondiale e con esso gli stessi proclami internazionalisti dell’Internazionale Comunista (III Internazionale 1919–1943) che verranno infatti progressivamente contraddetti e abbandonati.

Se in Italia e in Germania la borghesia per sopravvivere abolisce la democrazia borghese e gioca la carta della dittatura fascista, in Russia il capitalismo per svilupparsi non potrà che scegliere la prospettiva bolscevica ormai alla sua deriva rivoluzionaria, perché a disposizione c’era quella e non altro.

Ma nello stalinismo, allora, ci sono elementi di fascismo, gli stessi che ritroviamo in quei regimi che, come in Venezuela e Cuba, hanno assunto forme socialistiche compiute, anche se nazionali?

La domanda è tendenziosa in quanto se tra i sistemi istituzionali che si sviluppano nel sistema di produzione capitalista esistono analogie formali, esse devono essere contestualizzate e non paragonate in astratto secondo una diffusa tendenza avente finalità anticomuniste e reazionarie.

Negli Usa del New Deal la borghesia è sufficientemente forte da poter difendere i propri interessi mediandoli tramite la democrazia borghese, che infatti perdura con tutte le sue istituzioni economiche, politiche e sociali.

In Italia e in Germania la borghesia è invece debole e delega ai partiti fascisti la gestione dello stato. I fascisti assumono il potere costituzionalmente; instaurano una dittatura che cancella la forma democratica ormai d’intralcio agli interessi borghesi e del capitale finanziario che riesce comunque a limitare il ruolo dello stato nell’economia.

In URSS la borghesia è debolissima: una rivoluzione armata ha cancellato l’antico regime zarista, “baluardo della reazione in Europa”, e le sue infrastrutture storiche; la situazione economica post rivoluzionaria è gravissima; si prospetta una guerra civile alimentata dalle principali potenze imperialistiche. Il ruolo dello stato nell’economia e nella vita sociale risulterà quindi accresciuto, unilaterale, diretto e capillare, controllato com’è dal solo Partito Comunista al potere che nel nascente stato sovietico inizierà a perseguire quella “restaurazione capitalista” che troverà piena attuazione con lo stalinismo, quale epilogo della rivoluzione sconfitta.

Ma se la democrazia borghese, il fascismo e il bolscevismo nella sua deriva staliniana costituiscono le diverse configurazioni dello sfruttamento capitalistico, esse producono forme politiche e istituzionali molto diversificate anche in termini di organizzazione sociale e di libertà, proprio perché diversa è la loro storia e diverse sono le loro finalità. (4)

Venendo all’oggi l’imperialismo è un fenomeno che investendo capitali sconvolge gli assetti economici e sociali delle aree dove si afferma, creando nuovi assetti di classe tra le borghesie e le classi proletarie autoctone, qualificandosi (anche) come stimolo e volano di un nuovo modello di sviluppo, sia pure diseguale.

In America Latina, in Asia e in Africa le borghesie nazionali per affermarsi compiutamente hanno iniziato a svolgere un ruolo antimperialista, proprio attraverso il nazionalismo borghese.

In quei paesi laddove mancavano solide tradizioni democratiche borghesi a cui fare riferimento si sono rivolte al socialismo, spesso importato dall’occidente e dalle sue accademie e adattato alle realtà autoctone: ma ciò che si è affermato non è stato il socialismo, bensì regimi bonapartisti tesi a realizzare “l’unità nazionale” in funzione antimperialista, con inevitabili concessioni più o meno significative alle classi subalterne per affrancarle dal sottosviluppo che, ricordiamolo, costituisce un freno allo sviluppo del capitalismo.

Potremmo allora definire Maduro il continuatore di un’esperienza bonapartista che, iniziata con Chavez, ha indiscutibilmente acquistato credibilità grazie alle riforme sociali a cui ha dato seguito, per elevare le condizioni materiali delle classi subalterne al fine di realizzare “l’unità della patria contro l’imperialismo”, vale a dire la vera essenza del SB.

D’altronde anche la storia più recente dell’America Latina esprime altri precedenti di questo tipo (la rivoluzione cubana, la prima fase del Peronismo in Argentina; l’esperienza del governo Allende in Cile, per esempio) e una letteratura sterminata al riguardo.

Chavez è stato il dirigente politico di un fronte bonapartista; il prodotto di una polarizzazione sociale che ha visto componenti rilevanti della borghesia venezuelana reclamare l’affrancamento dall’imperialismo per arginare e gestire la penetrazione del capitale straniero assieme alle rilevanti risorse naturali derivanti dal petrolio, contro quelle componenti borghesi reazionarie interne che hanno storicamente beneficiato dell’imperialismo e che oggi per sopravvivere alimentano l’opposizione politica, parlamentare e sociale di estrema destra.

Questa opposizione perdura proprio perché, in Venezuela, Chavez raggiunse il potere con le elezioni democratiche che implicano proprio il permanere dell’opposizione mentre, ad esempio a Cuba, Castro assunse il potere con una rivoluzione armata che fece piazza pulita dei vecchi gruppi dirigenti cubani legati all’imperialismo USA.

Quindi il regime bonapartista venezuelano rappresenta un equilibrio instabile tra forze sociali che si contrappongono in una realtà nella quale il capitale straniero ha una funzione decisiva, e il governo si barcamena tra gli interessi della borghesia nazionale che reclama un ruolo autonomo dall’imperialismo e quelli delle classi sociali, prevalentemente borghesi, che di questo capitale invece beneficiano.

Non ostante che il SB stia perdendo consensi anche rispetto alle classi subalterne, che cedono ai richiami e soprattutto alle manovre della destra filo imperialista, non ha soppresso le libertà democratiche borghesi, non ha incatenato il proletariato e l’opposizione politica e sociale con una dittatura poliziesca così come è avvenuto in passato in numerosi paesi dell’America Latina (Argentina, Brasile, Cile, Uruguay), ma ha cercato di creare un fronte interclassista tra il proletariato e quella borghesia nazionale venezuelana determinata a arginare la penetrazione del capitale straniero a suo esclusivo vantaggio.

Le misure economiche e sociali poste in essere dai dirigenti venezuelani non devono quindi essere sottovalutate dalla critica rivoluzionaria, così come le milizie a difesa della rivoluzione e i vari comitati popolari di controllo sparsi sul territorio.

Tutte queste realizzazioni sono state, insieme, una necessità per rafforzare il SB nella sua essenza interclassista e una concessione alle inevitabili esigenze materiali delle classi subalterne e al loro reclamare un ruolo attivo nel processo rivoluzionario nazionale.

Il SB e, in generale, ogni forma di socialismo che tende ad affermarsi in un’unica nazione, non deve essere né demonizzato né, tanto meno, spacciato per ciò che non può essere e cioè socialismo. La rivoluzione cubana ha realizzato importanti progressi sociali quali quelli realizzati da Chavez in Venezuela: ma il motore di queste realizzazioni non è stato il proletariato, né la sua liberazione il loro fine ultimo. E se il proletariato è stato comunque coinvolto, più da Chavez che da Castro, è la nascente borghesia nazionale che, nel suo contraddittorio affermarsi, ha retto e regge il timone per la sua egemonia di classe, a Cuba e in Venezuela.

Si deve, allora, sostenere il socialismo Bolivariano?

Ancora una volta la domanda è mal posta. Gli equilibri della contesa imperialistica mondiale travolgono i piani della debole borghesia nazionale venezuelana e la stessa edificazione del SB, unitamente alle classi subalterne che in questa costruzione sono state inevitabilmente coinvolte, con conseguenze nefaste sugli assetti sociali venezuelani e continentali così come avvenne, per esempio, con la sconfitta di Allende in Cile nel 1973.

Ma ancora una volta l’aggressione imperialista – “il nemico esterno” – non può essere agitata per nascondere il nemico interno.

In Venezuela non esiste un sistema da difendere perché socialista, e non si può nemmeno continuare a credere che la sola intransigenza rivoluzionaria, per altro solo enunciata, preservi dall’aggressione imperialistica e dai deragliamenti politici e sociali interni.

In un contesto arretrato come il Venezuela non possiamo non sostenere quei processi che obiettivamente hanno elevato le condizioni materiali di un popolo semplicemente perché a portali avanti sono state le componenti borghesi progressiste che hanno realizzato gli obiettivi classici delle rivoluzioni borghesi continentali, redistribuendo in modo più equo la ricchezza sociale prodotta e accumulata per superare almeno in parte l’arretratezza freno dello sviluppo capitalistico, mantenendo comunque inalterati i livelli di sfruttamento e di potere: altrimenti che rivoluzione borghese sarebbe?

Ma la borghesia non è una classe universale e per difendere la propria egemonia e i propri interessi di classe può facilmente sostituire il progressismo strumentale con forme di dominio che possono concretarsi in declino autoritario di un’esperienza temporaneamente ispirata al socialismo, secondo la non evitabile genesi storica del bonapartismo che poi è quanto accade in Venezuela.

Ecco che allora esperienze ideologicamente distanti dalle nostre concezioni libertarie quali l’esperienza venezuelana e prima ancora quella cubana, possono costituire un ambito di riflessione importante, purché nella nostra critica si eviti di partire da un concetto astratto di libertà, consapevoli che il primo passo che deve essere realizzato in ogni transizione verso il ribaltamento dei rapporti di produzione capitalisti è proprio quella liberazione dal bisogno delle classi subalterne, premessa essenziale di ogni libertà successiva.

Ma è anche necessario evitare di cadere nella trappola del nemico esterno, che si risolve “nell’unità della patria per la difesa del socialismo dall’aggressione imperialista” a tutto vantaggio di quelle componenti della borghesia nazionale che detengono il potere in Venezuela.

Ancora una volta le eccezioni della storia sorprendono i rivoluzionari impreparati, con un radicamento sociale e una presenza organizzativa non all’altezza delle necessità, che non consente loro di incidere efficacemente sui rapporti di forza tra le classi per condizionarli nel senso della difesa degli interessi delle classi subalterne, sia contro gli avversari esterni che interni perché, se il nemico è obiettivamente rappresentato dall’imperialismo, dai suoi alleati e dai suoi misfatti è ben vero, quanto affermavano gli internazionalisti tedeschi alle soglie della prima guerra imperialista “…il nemico principale è costituito dalla borghesia che ognuno ha nel proprio paese”.

Da questo punto di vista l’esperienza di Nestor Machno in Ucraina, consumata tra il 1918/21 può risultare un riferimento il quale, anche se meno compiuto di altri (Comune di Parigi; Spagna 1936/39…), ha rappresentato un modello di gestione della vita economica e sociale che era possibile generalizzare, sia pure con gli inevitabili limiti, nell’esperienza post rivoluzionaria russa.

I bolscevichi, in coerenza alle loro tradizioni socialdemocratiche della II Internazionale socialista e del loro maestro Karl Kautsky, solo formalmente ma mai sostanzialmente “rinnegato”, intrapresero invece la strada della realizzazione dello “stato socialista” per la realizzazione del capitalismo di stato, progressivamente liquidando ogni opposizione politica e sociale.

In ogni caso Machno tentò di porsi rispetto al bolscevismo nel riconoscimento dei concreti rapporti di forza e nella considerazione della realtà esistente, evitando così di opporsi solo perché questi non rappresentava il proprio orizzonte comunista anarchico.

Lo fece generosamente scegliendo, nel fuoco della rivoluzione e della guerra civile, la difficile alleanza con i bolscevichi per combattere la controrivoluzione “bianca” armata dalle potenze imperialistiche occidentali quale nemico principale in quel preciso frangente storico cercando, contemporaneamente, di indicare una strada politica, organizzativa e sociale alternativa al bolscevismo: una strada che non ebbe la forza di sostenere, sia per le circostanze avverse nelle quali questa esperienza si sviluppò, sia perché il movimento anarchico russo e quello internazionale, assieme al movimento comunista e socialista di opposizione, andavano comunque da un’altra parte, come i socialdemocratici (bolscevichi) d’altronde.

Da questo punto di vista il paragone con il Venezuela di Maduro potrebbe anche assumere una qualche validità perché tra la deriva bolscevica e il “socialismo bolivariano” vi sono numerose aderenze, proprio in quanto varianti del bonapartismo.

Ufficio Studi – GA

1 Pietro Ingrao, «Da una parte della barricata a difesa del socialismo» – «l’Unità» 25 ottobre 1956;

Giancarlo Pajetta, «La tragedia dell’Ungheria – «l’Unità» del 28 ottobre 1956;

Palmiro Togliatti, «Sui fatti di Ungheria», «l’Unità», 30 ottobre 1956

2 Tratto da: “Mezzo secolo di lotta della classe operaia mondiale (1900 – 1950).” – In “Piccola Enciclopedia Anarchica” a cura del Gruppo di Iniziativa “per un Movimento orientato e federato” – Roma 1950)

3 F. Engels “Origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato- Editori Riuniti, 2005.

4 Per meglio comprendere il ruolo del bolscevismo e la sua storica imparagonabilità con il fascismo è sufficiente considerare il dibattito che si svolse in Russia sul controllo operaio e sulla questione sindacale dal 1917 al 1921 (X congresso del Partito Comunista Bolscevico). Infatti, la transizione che in Italia e in Germania condurrà al sindacalismo di stato sarà di gran lunga più semplice e breve che non quella realizzata in Russia.

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