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Sul welfare aziendale

welfare aziendale

Lo stato sociale (Welfare State, letteralmente Stato del Benessere) non esiste più da tempo, anche se il riconoscimento dell’universalità dei diritti in Italia è stato più un obiettivo, una rivendicazione che una realtà consolidata.

Basti pensare all’attuale cronica assenza di asili nido e di scuole dell’ infanzia in larga parte d’Italia , alla dispersione scolastica, che coinvolge 750000 ragazzi cioè circa un ragazzo su 5, con 5 punti percentuali sopra la media europea, alla drammatica situazione della popolazione anziana che non solo non ha strutture di ricovero né una adeguata assistenza domiciliare, per non parlare della prevenzione sanitaria che è stata più oggetto di convegni che prassi concreta.

Quello che è stato costruito in anni di conflitto sociale anziché consolidarsi ed estendersi é stato progressivamente sostituito.

Non a caso si passa dalla definizione di Welfare State a quella di Welfare Society, cioè ad un welfare che prevede l’azione congiunta del pubblico e del privato con l’apporto del volontariato, dei lavori socialmente utili così come dei cosiddetti percorsi formativi di cittadinanza attiva, ambiti questi ultimi che dietro la maschera del solidarismo che li dovrebbe caratterizzare, sempre più spesso divengono strumenti di dumping contrattuale.

Un processo che grazie al sempre meno efficiente welfare pubblico e alla necessità di allocazione di capitali sviluppa un vero e proprio welfare privato (WP) che poggia la sua penetrazione sulla mercificazione di tutte le componenti della vita dei cittadini.

Il welfare si intreccia con la quotidianità delle persone per tutto l’arco della vita e ne determina pesantemente la qualità, ma nonostante la pervasività che dovrebbe caratterizzare il sistema di assistenza sociale non è previsto alcun meccanismo di partecipazione e/o controllo da parte dei cittadini nei vari istituti preposti alla erogazione dei servizi.

Infatti il modello che caratterizza sia il welfare pubblico che quello privato é un sistema gestionale di tipo manageriale, dove i cittadini sono trasformati in clienti e le aziende sanitarie, gli ospedali, le residenze per gli anziani, le case famiglia, le scuole materne, gli asili nido eccetera si basano esclusivamente su indici economici e non sulla rispondenza ai bisogni dei cittadini nei percorsi di prevenzione, né ai bisogni dei malati, degli anziani, degli infanti e dei soggetti svantaggiati.

Il governo manageriale esclude qualsiasi tipo di controllo o partecipazione dal basso alle scelte operative le quali vengono calate dall’alto attraverso delibere attuative.

L’aziendalizzazione di importanti settori del welfare, dalla sanità alla istruzione non solo non ha risolto i problemi di efficientazione e di spreco, ma ha aperto un varco culturale al passaggio dal welfare pubblico direttamente verso l’erogazione di servizi da aziende private.

Si osservi a tal proposito l’esplosione di scuole e università private, o alla costante diffusione di strutture mediche-diagnostiche associate, di cui una punta di diamante è rappresentato dalle cliniche dentali.

In particolare nell’ambito sanitario privato in questi anni si registra una capacità di offerta di alta qualità che va ben oltre l’aspetto alberghiero che caratterizzava queste strutture nei decenni passati e che in alcuni casi è concorrenziale con il sistema dei ticket della sanità pubblica.

La capacità di investimenti è direttamente proporzionale allo sviluppo di polizze assicurative sanitarie, ma soprattutto all’estensione della sanità integrativa nei contratti collettivi di lavoro. In questa fase i profitti dei privati escludono una loro presenza significativa nei percorsi terapeutici più complessi e costosi che restano a carico del pubblico.

L’estensione di settori privati è anche avvantaggiata da una struttura contrattuale differenziata tra pubblico e privato con differenze salariali e normative consistenti che si accentuano ancor di più con l’appalto di molti servizi alle cooperative sociali e sempre di più a quello che viene definito il privato sociale, ovvero al mondo del volontariato che poco mantiene dello spirito dell’associazionismo e sempre di più dietro questo paravento nasconde un nuovo sistema di sfruttamento.

In comune il welfare pubblico e l’intervento privato nelle sue varie sfaccettature hanno in comune l’uso massiccio di forza lavoro precaria.

Qui, come d’altronde in molti altri settori di lavoro, si pone con urgenza l’obiettivo, evocato oramai da decenni, di affermare una delle richieste storiche del movimento operaio: stesso lavoro, stessi diritti, stesso salario.

Welfare aziendale

Il welfare aziendale, come abbiamo sopra delineato, favorisce ed aumenta l’espansione del privato a danno del pubblico, producendo così una divisione tra categorie di lavoratori che hanno la copertura di alcuni servizi con il welfare aziendale definito contrattualmente e categorie che non ce l’hanno e sono costretti ad accedere al pubblico quali clienti di servizi impoveriti.

Il welfare aziendale non va visto solo come componente paternalista -quindi unilaterale- dell’azienda, ma come stabile componente contrattuale indispensabile al progetto capitalista.

Occorre infatti la firma del sindacato per dare validità ai contratti stipulati, così come per recedere prima della scadenza degli stessi. Si tratta quindi di una componente legata alla condivisione del progetto dell’impresa all’interno della quale il lavoratore è inserito.

Sul piano contrattuale il welfare aziendale evidenzia la centralità della contrattazione che si svolge in azienda, cancellando o riducendo il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) a pura cornice e a una pletora di osservatori e bilateralità settoriali.

L’impresa dà vita, per necessità, per funzionare, ad un sistema condiviso e collaborativo che vede l’attiva partecipazione dei lavoratori al raggiungimento degli obbiettivi fissati dall’azienda.

Sui 24mila accordi la composizione del welfare aziendale presenta: sanità integrativa, previdenza integrativa, assistenza a famigliari e anziani, assistenza all’infanzia, mutui, assicurazioni varie ecc.

Il salario si ottiene quindi solo in azienda: con premi tassati al 10%, oppure con un welfare aziendale detassato e decontribuito, ma è l’azienda che risulta la maggiore azionista del guadagno sotto il profilo finanziario.

Altro che redistribuzione del reddito.

Inoltre lo sviluppo geometrico di accordi sindacali inerenti il Welfare Aziendale, con i benefici estesi anche ai famigliari, contribuisce alla creazione di una mentalità lontana dalla solidarietà di classe, favorendo la crescita e lo sviluppo di una sempre maggiore competitività tra gli stessi lavoratori.

In assenza di una reale autonomia del sindacato e di una sua visione complessiva, questo passaggio contrattuale sul terreno aziendale/corporativo, nella cornice della bilateralità, modifica geneticamente il sindacato stesso, realizzando quello che -in tempi non sospetti- abbiamo definito “sindacato di mercato”.

cfr Difesa Sindacale

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