Inflazione che ossessione
Una delle ossessioni della UE fin dalla sua fondazione è stata quella di quasi azzerare il tasso d’inflazione, provocando gravi conseguenze sulle politiche salariali, sulla domanda e sull’occupazione.
Con l’arrivo di Mario Draghi alla presidenza della BCE, vengono messi in atto provvedimenti finalizzati a cercare di far risalire il tasso d’inflazione fino al 2%.
Uno di questi provvedimenti è stato il cosiddetto QE (quantitative easing) consistente nell’iniezione di liquidità in euro sui mercati finanziari tramite l’acquisto di titoli.
Come si sa ne hanno beneficiato soprattutto i bilanci delle banche, dimostratesi poi riluttanti ad aprire le maglie del credito a sostegno dell’economia e della domanda aggregata nei territori.
A fronte di una crescita del PIL europeo del 2,4%, la BCE ha fatto sapere lo scorso 26 ottobre che da gennaio 2018 ridurrà il QE di 30mld di euro ogni mese, ma senza indicare la conclusione temporale del programma, dal momento che il tasso d’inflazione è ancora immobile allo 0,9% se depurato dei prezzi volatili di alimentari e dell’energia.
Dunque la UE si trova in una situazione di crescita del PIL, di bassa inflazione, di agevole politica monetaria, ma con un tasso di disoccupazione dell’8,9%.
L’inflazione (non depurata) è all’1,5%.
Tuttavia, fuori dalla UE, lo scorso 2 novembre la Bank of England ha invece alzato il tasso di interesse dallo 0,25% allo 0,50%. Il tasso di disoccupazione nell’UK è del 4,3%, il tasso d’inflazione del 3,00%
La stessa cosa ha fatto per 2 volte nel 2017 la Banca Nazionale Ceca. Qui il tasso di disoccupazione è del 2,7% e quello d’inflazione del 2,4%.
La Federal Reserve aveva già aumentato i tassi di interesse in marzo e giugno, ma è atteso un ulteriore rialzo a dicembre. Negli USA i dati sulla disoccupazione (al 4,1%, il più basso negli ultimi 16 anni) e dell’inflazione al 2% (sorprendentemente debole) indicano che si sta accorciando la distanza tra tasso di disoccupazione e tasso d’inflazione.
La Banca Centrale della Turchia rimane in attesa (dopo una strigliata del presidente Erdogan, secondo cui alti tassi di interesse producono inflazione) e mantiene i tassi d’interesse al 12,33%, a fronte di un’inflazione del 10,8%, di una disoccupazione al 10,7% e di un PIL al +5,00%.
Invece, lo scorso 25 ottobre, la Banca Centrale del Brasile ha nettamente tagliato i tassi d’interesse dall’8,25% al 7,5%, con un PIL al +0,7%, un’inflazione al 3,4% ed un tasso di disoccupazione al 12,4%.
Anche la Banca Centrale di Russia ha sforbiciato il suo tasso d’interesse abbassandolo all’8,25%. In Russia il tasso d’inflazione è al 3,9%, la disoccupazione al 5%, il PIL al +1,8%
Questi ultimi due casi dimostrano quanto la potenza dei paesi BRICS, quali ipotetici avversari dell’asse USA-UE-Giappone, non sia poi così reale come sostenevano alcuni esponenti dell’intellighenzia del nuovo PCI.
A proposito di Giappone, la sua Banca Centrale proprio una settimana fa ha lasciato invariati tassi d’interesse allo 0,03%, mantenendo il suo programma di QE pari a $700mld; con un tasso d’inflazione dello 0,5%, disoccupazione al 2,8%.
Da cosa dipende l’inflazione?
Secondo un modello usato dalle attuali banche, l’inflazione dipende da 3 elementi:
1. i prezzi delle importazioni (inflazione importata)
Si tratta della bilancia commerciale, delle materie prime, delle variazioni nei tassi di cambio; già un leggero aumento del prezzo del greggio da $30 al barile a $60 ha portato -come si diceva- il tasso d’inflazione in UE all’1,5%. Ma al tempo stesso ha messo nei guai paesi come l’Egitto (inflazione al 13,2%) e l’Argentina (24%) le cui valute hanno perso valore con dure conseguenze sull’acquisto di materie prime. Oppure ha fatto salire il tasso d’inflazione dell’UK dello 0,75%.
2. le aspettative pubbiche
Non si capisce come si formerebbero queste aspettative ma, secondo questo modello, gli imprenditori sarebbero inclini ad aumentare i prezzi ed i lavoratori a chiedere aumenti salariali se fossero convinti di un aumento del’inflazione. Lo dimostrerebbe al contrario il caso del Giappone, in cui sia gli imprenditori che i lavoratori sarebbero convinti che l’inflazione non si sbloccherà dallo zero-virgola, tanto da spingere il primo ministro Shinzo Abe ad esortare gli imprenditori ad affrontare la prossima stagione di rinnovi contrattuali della prossima primavera con un’offerta di aumenti salariali del 3% pur di far salire l’inflazione.
3. la capacità di pressione sulle economie domestiche
Quello del primo ministro giapponese sarebbe un esempio di pressione sulle economie domestiche che prescinde dall’inflazione importata.
Il tasso di disoccupazione che scende ed il numero degli occupati che sale porterebbe ad un aumento di offerte di lavoro ed a pressioni verso l’alto sulle politiche salariali.
Oggi un punto di diminuzione del tasso di disoccupazione negli USA non farebbe più crescere di un terzo il tasso d’inflazione, come accadeva nei decenni passati.
Nella Repubblica Ceca i salari sono cresciuti del 7%.
Tentativi di pressioni sulle politiche salariali sono in atto anche nell’UK e negli USA.
I banchieri fautori delle politiche monetarie restrittive non vedono di buon occhio una diminuzione dei fattori di stagnazione dell’economia.
La curva di Phillips sul rapporto tra inflazione e disoccupazione può diventare meno ripida.
In Italia, col PIL all’1,5%, l’inflazione all’1,3%, la produzione industriale al +5,7% ed il tasso di disoccupazione ancora all’11,1%, è necesssario aprire una grande stagione di rivendicazioni salariali e di politiche per l’occupazione che mettano in soffitta il Jobs Act e l’ossessione per l’inflazione a zero.
Se lo si fa a a livello europeo è ancora meglio.
Ufficio studi Alternativa Libertaria/fdca