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Antimilitarismo

Antimilitarismo
Aprile 13
13:07 2019

Come scritto nel “Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa” redatto dal Ministero della Difesa nel 2015: “La funzione svolta dalla Difesa è prevista costituzionalmente ed è fondamentale per lo Stato poiché ne preserva l’esistenza stessa e crea quella cornice di sicurezza che è condizione indispensabile per lo sviluppo del Paese”. Se per sviluppo si intende la tutela degli interessi delle classi dominanti, il militarismo, come prodotto di una società divisa in classi sociali, può assumere significati, forme e spazi ambivalenti: da una parte abbiamo l’asservimento della vita politica, delle funzioni e dei rapporti sociali e culturali ad un potere militare, dall’altra la politica fa proprio il paradigma militare per affrontare le situazione di crisi esterne ed interne. Insomma, si passa alternativamente dalla militarizzazione della politica alla politica della militarizzazione.

Le conseguenze sul piano pratico sono diverse: nel primo caso, il potere militare si sostituisce a quello politico; oppure, consapevole della sua funzione insostituibile, la casta militare ambisce a conquistarsi un ruolo di maggior potere e privilegio. Dall’altra, assistiamo ad un processo di militarizzazione dello spazio pubblico con l’affermarsi di uno “stato d’eccezione” che comporta la sospensione delle regole democratiche e dei diritti sociali.

Ci sono poi due piani di intervento: uno interno, volto ad un disciplinamento del corpo sociale per ristabilire il comando capitalista e nel quale lo spazio fisico assume le sembianze di una caserma (l’Italia è il terzo paese più militarizzato al mondo, dopo la Russia e la Turchia, con 467,2 poliziotti in servizio ogni 10 mila abitanti); e uno esterno, che serve a ristabilire un ordine internazionale fondato sulle pratiche di destabilizzazione e del saggio di profitto.

Il militarismo, inoltre, assume l’aspetto di un annullamento della personalità del singolo a vantaggio di un atteggiamento gregario che esalta il ruolo del corpo militare di appartenenza e tende ad accompagnarsi ad una visione autoritaria della società basata sul principio gerarchico e per questo refrattaria al cambiamento.

Ma proviamo ad entrare più nel dettaglio sulle politiche della sicurezza e della difesa.

Sempre citando il “Libro Bianco”, tra gli obiettivi primari che la riforma del Ministero della Difesa e delle Forze armate deve conseguire troviamo l’aggiornamento delle capacità alle esigenze attuali, il miglioramento dell’efficacia d’azione e l’efficienza di funzionamento, la garanzia dell’economicità complessiva del sistema”.

Questo processo di ammodernamento operativo si inserisce all’interno di un indirizzo strategico che mette al suo centro la questione della sicurezza e della difesa nazionali, dove il ruolo dell’Italia si definisce nel contesto Nato e di integrazione militare europea, e prevede una maggiore cooperazione tra la Difesa e l’industria che coinvolga anche l’Università e i centri di ricerca nell’ottica delle nuove politiche per l’innovazione e la ricerca scientifica e tecnologica.

Se l’Europa si riarma, anche su pressione degli Stati Uniti, inserendosi in un trend mondiale che vedrà nel prossimo lustro la spesa militare crescere a ritmi del 3-3,5% l’anno e superare i 2.000 miliardi di dollari nel 2022, gli Stati europei sono incapaci di mettersi d’accordo nella definizione di una propria autonomia strategica.

Il quadro politico europeo è disomogeneo: da una parte, l’asse franco-tedesco, con il ruolo determinante della Germania, che spinge sul progetto di un esercito europeo e della cooperazione militare con l’istituzione di una “PeSCo”, che già beneficia di un finanziamento di 13 miliardi di euro grazie al nuovo Fondo Europeo per la difesa (Edf). In questo senso va anche il progetto, sponsorizzato dalla Francia di Macron, che punta a realizzare entro il 2024 un continente “sovrano, strategico e autonomo” con il lancio di una forza di intervento rapida europea (IEI “Iniziative Europèenne d’Intervention”).

Dall’altra, la Gran Bretagna, in attesa di uscire dall’Unione Europea, e i paesi dell’est europa che si fidano solo degli Usa e della Nato. Mentre l’Italia si alterna tra l’affermazione della sua fede atlantica e il suo timido sostegno al processo di integrazione militare europeo.

Ma se questo è lo stato delle cose nell’ambito europeo, l’Italia non fa mancare il suo impegno nel contesto globale, attraverso la partecipazione alle missioni militari internazionali, con un adeguamento delle sue forze armate e del suo arsenale e con la disponibilità ad ospitare decine di basi militari Usa e Nato nel proprio territorio.

Abbiamo tanti problemi, ma alla “guerra” non rinunciamo. Sono 37 i teatri bellici dove bene o male i nostri contingenti militari sono presenti. E per questa partecipazione spendiamo ogni anno fior di fondi pubblici. Soldi che magari potrebbero essere impiegati almeno in parte per altre esigenze, come la creazione di posti di lavoro, il Welfare, l’istruzione, la sanità o la riforma delle pensioni. L’Italia è impegnata in 39 missioni militari di cui 37 internazionali in 24 paesi per un totale di 13.380 persone impegnate. Il costo totale è di 1 miliardo e mezzo l’anno.

Ammonta a 25 miliardi di euro la spesa militare italiana per il 2018, l’1,4 per cento del Pil, con un aumento del 4 per cento rispetto al 2017. Si tratta ormai di una tendenza di crescita avviata dal governo Renzi (con un 8,6 per cento in più rispetto al 2015) che non accenna a fermarsi. Nel 2018, infatti, crescono anche il bilancio del Ministero della Difesa (21 miliardi, il 3,4% in più rispetto al 2017) e i contributi del Ministero dello Sviluppo Economico all’acquisto di nuovi armamenti (3,5 miliardi di cui 427 milioni di costo mutui, ossia il 115% in più nelle ultime tre legislature). (Rapporto MIL€X 2018) Va, inoltre, ricordato che il Governo dovrà rispettare gli impegni assunti con la NATO dai governi precedenti, che prevedono di portare la spesa per gli armamenti al 2% del Pil lordo.

Sul fronte interno, si incentivano la militarizzazione dei territori urbani e la disciplinarizzazione dei corpi con la messa a punto di alcuni dispositivi repressivi che prevedono l’introduzione della Daspo urbana (un foglio di via della durata di 48 ore) oppure l’uso degli “steward urbani” (una sorta di ronde civili che sorvegliano il territorio). Si stanno potenziando sistemi di controllo e repressione tecnologici di videosorveglianza che fanno dello spazio sociale un monumentale gulag dei corpi o, per usare l’espressione di Gary T. Marx, una “società di massima sicurezza”.

Si lanciano progetti come “Scuole sicure”, non per risolvere l’annoso problema della messa a norma degli edifici scolastici che per il 58% dei casi sono dichiarati inagibili (vedi dati MIUR), ma per dotare le scuole di telecamere al fine di contrastare la diffusione di sostanze stupefacenti.

Si moltiplicano i protocolli d’intesa fra gli Enti locali, le amministrazioni scolastiche e i distretti militari per promuovere fin dentro le aule scolastiche le “opportunità lavorative” offerte dal nuovo esercito professionale. E sono ancora una volta i giovani, ritenuti indisciplinati e disorientati, oggetto delle attenzioni della classe politica che vorrebbe reintrodurre per loro la leva obbligatoria.

Li si vogliono addomesticati e docili perché oggi tra i soggetti più colpiti dalle politiche governative contro il mondo del lavoro e dei servizi e costretti a subire un futuro incerto fatto di precarietà e miseria.

La politica della militarizzazione si declina anche attraverso un’isteria securitaria che trova nel recente “decreto sicurezza”, approvato dal governo Lega-Cinquestelle, una micidiale arma contro i richiedenti asilo e i migranti, ma anche per colpire il diritto di sciopero, di critica e di opinione, il movimento per il diritto all’abitare, i pochi spazi sociali autogestiti rimasti, in un disegno repressivo, interno ed esterno, che prevede il rafforzamento degli organici della polizia e delle missioni militari all’estero.

Servitù e basi militari sono l’eredità cancerogena che ci ha lasciato la “guerra fredda” e alla quale avremmo fatto volentieri a meno. Una realtà che investe tutto il paese e che sottomette il territorio ad un processo di militarizzazione che pervade ogni aspetto della vita sociale, ambientale e politica. Va qui sottolineato che molte di queste strutture, oltre ad ospitare armi nucleari, dai primi anni ’90 hanno assunto un ruolo di operatività nelle diverse aree di conflitto.

Prende forma una “architettura del dominio” che aiuta a governare i dettagli dello spazio urbano e della sfera privata, della reclusione sociale generalizzata, rinforzando lo stesso senso di alienazione e di obbedienza.

Demistificare e destrutturare la retorica e la narrazione dominanti sono uno degli obiettivi della critica antimilitarista. Ma questo non è sufficiente se non trasformiamo il nostro sentire comune in pratica antiautoritaria, con il rifiuto di ogni forma di militarismo, di coercizione e di dominio; internazionalista, con il ripudio della retorica patriottarda e reazionaria che esalta la propria appartenenza nazionale con il solo scopo di tutelare gli interessi di pochi a danno dei tanti; rivoluzionaria, con l’obiettivo di ricostruire quel fronte sociale e di classe per stravolgere i piani e gli interessi del potere politico ed economico nazionale e transnazionale e per trasformare la società divisa in classi in una società di liberi ed uguali.

Mozione approvata al X Congresso di Alternativa LIbertaria/fdca,

Fano, 30 marzo 2019

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