Migranti e lotta di classe
Ormai immersi in una narrazione tossica di luoghi comuni sull’italianità, sul “prima gli italiani” e sul fatto che “gli immigrati rubano il lavoro”, assistiamo impotenti alla trasformazione di diritti che credevamo acquisiti e universali in privilegi discriminanti. E quello che sembra un effetto collaterale quasi casuale, invece è la questione migratoria che viene agitata come specchietto per le allodole e la vera posta in gioco è la riduzione di ogni spazio di agibilità sociale e politica di dissenso.
La retorica dell’invasione
La mancata adesione dell’Italia al Global Compact, un patto poco più che simbolico, ci accomuna alla parte peggiore dell’Europa, quella del blocco di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia), insieme a Austria e Bulgaria.
Va detto. Le politiche internazionali di respingimento, che senza successo tentano di discriminare i migranti economici dai rifugiati (a cui l’accoglienza è un diritto), sono una responsabilità comune UE. Non per il mancato accoglimento della redistribuzione delle quote dei richiedenti asilo (al di là della propaganda la percentuale di richiedenti asilo in Italia è in linea con gli altri paesi europei) ma per i criminali accordi stretti con gli Stati cuscinetto (la Turchia per bloccare l’accesso alla Grecia, la Libia, con i suoi lager disumani), e per la strenua difesa dei confini interni (vedi il confine con la Francia) oltre che esterni (emblematica la Spagna che con Ceuta e Melilla, la militarizzazione delle frontiere e del mare, gli accordi bilaterali col Marocco e gli altri stati africani, è considerata un esempio di politica di successo sull’immigrazione).
Di fatto, la chiusura di ogni possibile canale legale di entrata in Europa (e in Italia) sovvenziona mafie e schiavisti, e ogni ostacolo alla libera circolazione degli individui, oltre ad essere eticamente riprovevole di per sé, in un mondo attraversato ininterrottamente dalle merci, non fa che aumentare il prezzo di questa moderna tratta degli schiavi e delle schiave.
Nostra patria è il mondo intero: Mai come oggi lo slogan che ci vuole contro ogni frontiera è lontano da ogni retorica e va sostanziato con atti concreti di disobbedienza e di solidarietà.
Il sistema dell’(in)accoglienza
La profonda trasformazione del sistema di accoglienza italiano, già inadeguato e contraddittorio, effettuata dal governo gialloverde a puro scopo propagandistico o, peggio ancora, per regalare ulteriori margini di sfruttamento alle mafie nazionali e internazionali, vede il ritorno alla militarizzazione della gestione dell’immigrazione e lo smantellamento delle forme di accoglienza civile, gestita dalle amministrazioni locali, che aveva indicato almeno in parte la strada dell’integrazione e della commistione. La necessità di un capro espiatorio da additare all’opinione pubblica, fomentando forme di odio e di paura assolutamente ingiustificate nella stragrande maggioranza, è stato il motore di campagne accuratamente orchestrate, in cui gruppi dichiaratamente fascisti hanno avuto un ruolo predominante. La chiusura di fatto degli SPRAAR e dei modelli di accoglienza diffusa, è l’occasione di uno scontro istituzionale che ha delegittimato il sistema delle autonomie locali rispetto alla gestione emergenziale e centralizzata in mano ai mandatari del governo, con risultati disastrosi sui percorsi di integrazione che tra mille difficoltà stavano riprendendo in questo paese.
La retorica della sicurezza, da sempre utilizzata per creare un allarme sociale che distolga dai veri problemi (immiserimento, blocco dei salari e delle pensioni, tagli al welfare e alla sanità) sta avendo il paradossale, ma certo non inconsapevole, risultato di aumentare il numero delle persone irregolari: l’esercito invisibile dei diniegati, coloro a cui viene negata la protezione umanitaria, che non hanno alcuna possibilità di regolarizzarsi, e neanche di curarsi. Prigionieri di un paese che dice di non volerli, visto che non è credibile una politica di rimpatri più o meno volontari, ma è pronto a sfruttarli e a chiuderli in centri di detenzione sempre più grandi, sempre più inumani, sempre più numerosi. Prosegue la politica concentrazionista. La politica degli sgomberi, una legislazione liberticida che con la scusa degli immigrati colpisce in realtà tutti gli attivisti sociali, il clima da tolleranza zero che riguarda tutti i reati minori rischia di creare una miscela esplosiva. In questa situazione, anche il ruolo sussidiario della società civile, (la parte sana dell’associazionismo no profit che non è ancora fagocitato dal malaffare del mondo di mezzo) rischia di non bastare a mettere le pezze a un sistema di criminalità istituzionale.
Contro la criminalizzazione non solo del dissenso ma anche di ogni forma di solidarietà (il cosiddetto buonismo) occorre allargare pratiche di solidarietà attiva e di disobbedienza. La casa è di chi l’abita…
Lo stato di fatto
Che in realtà gli immigrati siano funzionali al proseguimento ed al buon andamento della struttura economica produttiva capitalistica è cosa nota.
In Italia nel 2016 il 56% delle badanti e il 74% dei lavoratori domestici erano stranieri, così come il 30% dei braccianti agricoli e il 30% degli operai edili1. Sono stati anche le prime vittime della crisi: tra il 2007 e il 2013 il tasso di occupazione degli immigrati è diminuito del 8, 8% contro il 2.9% dei lavoratori italiani2. Se quello degli immigrati (regolari) è un mercato del lavoro caratterizzato da segregazione occupazionale, lavoro irregolare, intermediazione illegale, una precarietà ancora superiore alla media nazionale, pure riesce in alcuni casi ad esprimere una soggettività in grado di instaurare vertenze sindacali significative, come nel caso della logistica o in qualche episodio legato al settore agricolo.
Chi presenta gli immigrati come esercito di riserva del capitalismo, e cavallo di troia di un dumping sociale, mischia abilmente realtà e menzogna: se la presenza di immigrati ricattabili facilita la sopravvivenza di interi settori produttivi che possono accedere a manodopera che accetta retribuzioni inferiori agli italiani, paradossalmente, per molte di queste aziende l’alternativa sarebbe la delocalizzazione della produzione: si potrebbe dire che gli stranieri aiutano a tenere in Italia posti di lavoro. Il riconoscimento di pieni diritti di cittadinanza alle donne e agli uomini presenti nel nostro paese ne renderebbe più difficile lo sfruttamento spezzando molte delle armi di ricatto in mano a padroni legali o illegali. Ma occorre rilanciare: solo una risposta di classe alle politiche economiche di governo, al padronato, all’UE, non circoscritta al terreno dell’anti razzismo, ma che aggredisca alla radice il malessere sociale che accomuna il proletariato autoctono e immigrato e le nuove generazioni di lavoratori e di lavoratrici oramai succubi di un mercato del lavoro che offre unicamente lavoro precario e sottopagato, può attaccare i meccanismi generali dello sfruttamento capitalistico del lavoro.
Ma siamo anche consapevoli che la dimensione continentale dello scontro capitalista, ci impone la necessità che la lotta di classe si rappresenti dentro una prospettiva internazionalista, dove la solidarietà tra sfruttati supera l’appartenenza nazionale.
Dovremo essere capaci di rivendicare forti aumenti salariali egualitari, coniugati alla riduzione drastica e generalizzata degli orari di lavoro per una decisa opera di contrasto al precariato, effettiva parità di trattamento in tutti i campi tra lavoratori immigrati, lavoratori autoctoni, senza alcune discriminazione di genere. Lavoratori e lavoratrici provenienti da tutto il mondo uniamoci: la solidarietà di classe senza distinzione di razza, colore della pelle, religione, sesso ed etnia, è l’unico mezzo per contrastare il ricatto padronale e invertire la spirale di immiserimento che ci viene imposta.
E chi c’era da prima? La fabbrica della paura
Il modello italiano, che aveva visto dalla metà degli anni novanta un’immigrazione economica abbastanza variegata da permettere in larga misura un’integrazione accettabile, dove percorsi di mediazione e di buona volontà sopperivano ai paletti di una legislazione via via più restrittiva, è ormai distrutto. Abbandonare all’ultimo momento la riforma del diritto alla cittadinanza per i nati in Italia (lo “isu soli”) è stato l’ultimo grossolano errore di una sinistra istituzionale ormai alla deriva anche sul piano dei valori più semplici. In una situazione di declino demografico come quello italiano si cominciano a agitare spettri sostituzionalisti, che accusano le donne straniere di fare più figli di quelle italiane, disconoscendo il ruolo della precarietà, il fatto che il peso riproduttivo e di cura pesi esclusivamente sulle donne e l’assenza di strumenti di conciliazione. Nonostante la ragionevolezza dei numeri inviterebbe a considerare positivo il contributo dell’immigrazione in questo paese (e come per la questione del saldo demografico vale quello contributivo) le risposte politiche assumono la forma ideologica della restaurazione, fomentando la guerra tra poveri, mascherata da guerra tra culture, decisamente più economica che la rimozione delle disuguaglianze.
E’ servita una ben orchestrata campagna mediatica per fare riemergere la paura dell’”uomo nero” e sdoganare tutto il suo corollario schifoso di razzismo e sessismo, di becero tradizionalismo, dove la difesa delle tradizioni italiane a giorni alterni vorrebbe ridurci tutti, nativi e migranti, a semplici comparse che si devono accontentare del ruolo assegnato, appiattendo ogni comune aspirazione al vivere meglio, alla giustizia sociale, al progresso culturale, alle scelte di vita.
Contro questa massificazione, che vuole tutti noi bianchi cristiani e indifesi e tutti loro neri, aggressivi e magari pure islamici, ciascuno nei suoi spazi e prigioniero delle proprie paure, occorre rilanciare la solidarietà di classe e la libertà di scelta, contrastare ogni tendenza segregazionista, creare spazi comuni dove poter costruire insieme forme di lotta e di laboratori di diritti.
Il nostro vero scontro culturale è contro gli sfruttatori di ogni colore, e contro chi nega i valori di solidarietà, giustizia e libertà.
Il chiacchericcio dell’infame senso comune è sempre più assordante: non possiamo mica accoglierli tutti, no? Non dovremmo aiutarli a casa loro? Così cominciano le distinzioni. Quelli che fuggono dalla guerra si, quelli che fuggono dalla fame no, li lasciamo affogare o li rimandiamo nel deserto. Prendiamo solo le donne e i bambini. Le vittime delle dittature amiche, come il Sudan di al-Bashir, di despoti sanguinari che però hanno stretto accordi di collaborazione con l’Italia, no. Per avere diritto a cercare di salvarsi la vita la persecuzione deve essere dimostrata individuale e mirata. La desertificazione e la povertà colpiscono nel mucchio, se ne sei vittima la protezione umanitaria non vale.
Dietro la trappola dell’”aiutiamoli a casa loro”, senza dover qui ricordare lo scempio ambientale e di rapina che continua da secoli nelle terre di emigrazione, quello che serve è solidarietà ed unità a carattere internazionalista. La necessità di trovare degli equilibri di redistribuzione delle ricchezze, che passano per le lotte sociali, per l’estensione dei diritti, per la difesa dei territori e delle risorse comuni e contro le guerre per procura, economiche e militari.
Si deve, si può cementare questa unità attorno a un problema che più globale non si può: il cambiamento climatico. Causato da un sistema economico autoritario, disumano e centralizzato questo problema non può che essere risolto da un movimento egualitario, solidale e federale che parta dal basso e unisca la lotta contro il cambiamento climatico con la giustizia sociale per l’autogestione del territorio. Qui e altrove.
Mozione approvata al X Congresso di Alternativa LIbertaria/fdca,
Fano, 30 marzo 2019
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