Questo numero de “il Cantiere” esce in concomitanza dell’inasprimento della epidemia del Covid-19. Abbiamo già scritto sulle responsabilità e delle condizioni in cui le lavoratrici e i lavoratori si sono trovati nell’affrontare il virus.
Non abbiamo competenze specifiche per dare risposte epidemiologiche, né pensiamo, in questa fase di aggiungere opinioni che vadano a sommarsi alla già confusa letteratura sull’argomento.
Ci limitiamo a registrare i fatti. Il sistema sanitario è nuovamente in affanno, le terapie intensive rischiano di non essere sufficienti per tutti quanti ne necessitano, il rischio è quello di trovarsi nella condizione di scegliere chi curare e chi no.
In questa situazione, dove la salute diventa la preoccupazione principale e le incognite della tenuta economica incombono su interi settori produttivi, ogni altro argomento sembra perdere di importanza.
I richiami per una collaborazione partecipe che dalle istituzioni alla chiesa vengono per battere la pandemia sono pressanti ed evocano ancora una volta l’immagine della barca su cui tutti saremmo imbarcati.
Una storia che periodicamente si ripete.
Coloro, lavoratori e ceti popolari, che subiscono le contraddizioni dei sistemi economici- sociali, sono gli stessi che si fanno carico delle conseguenze in termini di fatica, sofferenze e miseria.
Al riguardo ricordare l’apologo di Menenio Agrippa non è un vezzo storico, quel 494 a.c. segna una data emblematica nella subalternità dei ceti meno abbienti nei confronti dei ceti possidenti. [1] Argutamente Marx commentò che Agrippa non aveva spiegato come, riempiendo la pancia dei patrizi, si potessero nutrire le braccia dei plebei.
La crisi pandemica non ha intaccato la pervasiva attualità dell’apologo di Agrippa. Non solo braccia che nutrono pance altrui, ma anche una barca che ammesso che vada a fondo vede “schiavi” salariati a svuotare le sentine, mentre sulla tolda i “signori” continuano a gozzovigliare.
Oggi con linguaggio diverso che cerca di irretire i lavoratori con la prospettiva di un lavoro auto-diretto la Confindustria ripropone lo schema dell’apologo.
“ Questo moderno “Homo faber” deve sentirsi ed essere partecipe, artefice orgoglioso del processo di creazione del valore.” Confindustria “Il coraggio del futuro. Italia 2030-2050” 29 settembre 2020
Non appare casuale l’utilizzo del latino homo faber che è parte della locuzione latina ”homo faber fortunae suae”, che significa letteralmente «l’uomo è l’artefice della propria sorte». Nella sua espressione originaria la locuzione si riferiva all’essere umano nella sua generalità e sottolineava la capacità dell’uomo di essere artefice del proprio destino, capace di creare, costruire, trasformare l’ambiente e la realtà in cui vive, adattandoli ai suoi bisogni .
Nello schema di confindustria l’homo faber è quello che fa riferimento al nuovo lavoratore iper flessibilizzato, agile, somministrato, legato all’impresa solo per essere sfruttato e abbandonato alle politiche di sostegno al reddito e quindi alla fiscalità generale quando i profitti calano. L’artefice orgoglioso del processo di creazione del valore è il lavoratore agile prodotto dalla pandemia. “ lo smart working, infatti, può essere un terreno ideale per portare avanti questa maturazione culturale che chiede di “essere” partecipativi: non è certamente foriero di risultati stabili pensare la partecipazione in termini di “avere” – cioè ottenere attraverso la contrattazione –se poi la mentalità di fondo è e rimane quella “antagonista”. “
Ancora una volta come nel 494 a.c. si pretende di socializzare la creazione del valore e non si pone la necessità di socializzare la distribuzione della ricchezza.
La presunta sinistra istituzionale e le stesse confederazioni sindacali hanno accreditato il paradigma “fate sacrifici, accettate riduzioni di salario, precarietà del lavoro, il jobs act e l’economia ripartirà; e se riparte l’economia ci saranno più benefici per tutti.”
Non farsi ingabbiare in questo schema è il presupposto per lasciare aperta una prospettiva di cambiamento.
I rapporti di forza non consentono oggi di pensare a grandi battaglie, ma come proviamo ad argomentare negli articoli di questo numero vi sono le potenzialità per avviare una stagione di lotte capace di unificare la classe partendo dalla difesa del contratto collettivo nazionale, dalla richiesta di significativi aumenti salariali e dall’avvio di una vertenza generale sulla riduzione dell’orario di lavoro.
Obiettivo questo ultimo che coniugato a livello europeo può gettare le basi per un nuovo e forte processo di solidarietà internazionale dei lavoratori.
[1]«Una volta, le membra dell’uomo, constatando che lo stomaco se ne stava ozioso [ad attendere cibo], ruppero con lui gli accordi e cospirarono tra loro, decidendo che le mani non portassero cibo alla bocca, né che, portatolo, la bocca lo accettasse, né che i denti lo confezionassero a dovere. Ma mentre intendevano domare lo stomaco, a indebolirsi furono anche loro stesse, e il corpo intero giunse a deperimento estremo. Di qui apparve che l’ufficio dello stomaco non è quello di un pigro, ma che, una volta accolti, distribuisce i cibi per tutte le membra. E quindi tornarono in amicizia con lui. Così senato e popolo, come fossero un unico corpo, con la discordia periscono, con la concordia rimangono in salute.»