Vite meravigliose e modi di lasciarle. Sulla “buona morte” nel pensiero libertario. In omaggio a Paolo Finzi.
E’ difficile esporre una riflessione che armonizzi razionalità e sentimento circa la scelta di lasciare in maniera repentina la nostra vita.
Eppure, rispetto al suicidio, possiamo confrontarci con il bagaglio culturale libertario che discute e difende la sovranità di noi stessi sul nostro corpo, in modo da aprire un orizzonte comune anche alla nostra emotività ferita.
I commenti sulla stampa a questo proposito possono dirci poco. Fatta eccezione per il dar conto delle personalità di rilievo, a volte con stupore per chi, seppure famoso o affermato, dotato di mezzi, sceglie il suicidio; sempre più spesso si viene a far parte dei tant* che lasciano la vita alle soglie dell’anzianità, e che la stampa annota come persone decise a non farsi travolgere, se stesse ed i propri cari, da patologie gravemente invalidanti.
Riguardo a questo la tradizione medica si evolve; in Italia, dal 2017, esiste la legge che dispone il rispetto delle volontà dei cittadini sul trattamento sanitario, con possibilità di rifiutare terapie di mantenimento quali tracheostomia e gastrostomia. Malattie gravemente lesive ora possono essere affrontate senza accanimento, e non sono rari i casi di persone che dispongono il rifiuto della ventilazione meccanica, affrontando consapevolmente la sedazione profonda e la morte.
Ma il percorso verso decisioni condivise con la propria rete sociale non è uguale per tutt*, possibile per tutte le patologie1, e soprattutto elaborato culturalmente e praticamente.
Il sostegno nel caso di decisione sulle sospensione delle cure, e sul modo di finire la vita è ancora una pratica rara. Più raro ancora è il prepararsi alla morte, seppure da alcuni decenni esistano nuovi filoni di ricerca sia medica che filosofica. 2Ciò anche se segnali di cambiamento, in ultimo in Italia la pronuncia della Corte costituzionale (42/2019) sul caso Marco Cappato – Fabiano Antoniani, stanno sancendo la liceità dell’ “accompagnamento”, anche se fuori dai confini statali.3
Proprio nella differenza tra eutanasia (buona morte) e suicidio sta il punto.
Riguardo all’eutanasia (ancora illegale in Italia) e alla sospensione delle cure mediche (invece legittima con Dichiarazione anticipata4), il diritto si evolve, a partire dall’Art.32 della Costituzione5.
Il suicidio invece, come gesto per definizione individuale, che spesso cela le motivazioni nella sfera privatissima del proprio “sentire la vita” fa cadere solo su se stessi, a volte rivendica6, la responsabilità di un’ uscita dalla dimensione collettiva.
Il suicidio non si svolge come “buona morte”, dovendo spesso far ricorso per attuarsi a metodi violenti e dolorosi, contro se stessi ed il proprio corpo, nella grande maggioranza dei casi.
La differenza, per inciso, si basa fondamentalmente sul persistere o no di una rete di relazioni, di affido, a confronto coi limiti imposti dalle leggi statali.
E’ proprio per questo che il libro sul suicidio, scritto dai libertari Claude Guillon e Yves le Bonniec, scatenò le ire della maggioranza benpensante francese, nel 19827:
la narrazione puntigliosa di tecniche di suicidio incruente infrangeva quel divieto che pare essere sorpassabile solo con atti di masochismo estremo in una società che ha concepito la vita umana come di proprietà di Dio prima, poi del Sovrano o dello Stato, quindi del medico o dei familiari.
Ancora oggi, se leggiamo le copie digitali del libro di Guillon “Le droit à la mort” (2004)8 troviamo censurati tutti i riferimenti a sostanze e dosaggi usati nei suicidi “incruenti”.
La censura della legge non vuole solamente vietare l’ “emulazione” sulla base di fattori emotivi e psicotici (anche adolescenziali, il cosiddetto goethiano “effetto Werther”) ma impedire la facilitazione ed affermare lo stigma sociale.
Ciò nonostante siano attivi nella nostra società tanti modi di “suicidarsi”: il ricorso a sostanze lentamente mortali con monopolio di Stato, la guida spericolata dell’omicida-suicida, le armi da fuoco che sparano colpi “accidentali”… viviamo totalmente immersi in una cultura che vacilla tra enfasi sulla vita e autodistruzione.
Il tabù resta la scelta privata, consapevole e razionale della morte, fondata sul riconoscimento di quel limite all’assurdo di cui Albert Camus parla: “…l’assurdo nasce dal confronto tra la chiamata umana ed il silenzio irragionevole del mondo”9.
Il suicidio resta quell’affronto alla sovranità (divina o statale) che un tempo faceva negare le esequie cattoliche ai “peccatori non pentiti” e la cui colpa pesava nell’immaginario collettivo… l’ eutanasia, invece, non è più quell’onta che veniva condannata dalla morale cattolica: la ribellione “luciferina” all’ imposizione della sofferenza per motivi imperscrutabili di redenzione o per semplice ambiguità divina inizia ad essere capita. Una lettera apostolica quale la “Salvifici doloris” (1984) nella quale si teorizzava il dolore imposto al corpo come prova e strumento di purificazione, ora parrebbe anche alla maggior parte dei cattolici immotivata, involuta, solo un contro-altare dell’edonismo reaganiano di un tempo. Un pronunciamento contro l’eutanasia come quello dell’enciclica Evangelium vitae, sempre siglato da Karol Wojtyla nel 199510, è ormai incompresa dal cattolico comune, non solo perché tarato sulla real vita papale (il papa che ebbe un intero piano del policlinico Gemelli a disposizione per la sua malattia) mass mediata e ideologica, assolutamente non realistica per i comuni mortali.
Ciò anche se nel programma di “riforma” bergogliana della morale cattolica resta inclusa la lettera “Samaritanus bonus” (luglio 2020), che ancora ribadisce “atto gravemente immorale” la scelta di eutanasia di un malato terminale e addirittura prefigura la possibilità, se tale eutanasia viene rimandata, di poter intervenire per la conversione11.
Se una società laica, e peraltro fortemente individualista, ripensa il tema della dignità del fine vita, lo fa riprendendo quindi uno scenario antico.
Si pensi al gesto socratico di suicidarsi per senso di responsabilità verso se stessi e ciò in cui si crede12, circondati dalle persone amate, da coloro cui si può ricordare di pagare un debito in sospeso col dio Asclepio, “dopo aver cenato e dopo aver bevuto molto bene”13. Si pensi al Leopardi, primo moderno esistenzialista – del Frammento sul suicidio -che riflette sul dissidio tra essere umano e natura. O al suicidio con una placida e collettivamente autogestita overdose del protagonista di Le invasioni barbariche (2003), o a quello della nonna diabetica de “Mine vaganti”(2010), penso alla ricerca del buon vivere e del buon morire.
Il suicidio ha dunque una dimensione ed una ragione private, impossibili da raggiungere, e una dimensione politica, molto legata alla percezione collettiva del corpo ed all’astrattezza del pensiero.
Torna attuale la riflessione di Leopardi14, che ripropone il tema dell’immaginazione al potere contro una società depressiva, anche prima del pensiero libertario francese. Quel pensiero libertario che proprio la preziosa memoria storica di Claude Guillon ricorda essersi dedicato alla “diritto di morire” già con Paul Robin15, e che suggerisce, retoricamente, una marea di cose da fare prima del suicidio (Avant de vous suicider… Caressez un projet / Faites le tour du monde en 8.880 jours/ Mêlez-vous de tout!…).
E’ certo che il confronto con la pandemia da Covid-19 ha duramente messo in dubbio i principi a tutela della libertà individuale rispetto alla gestione della nostra salute, ponendo in crisi da emergenza tutto il sistema sanitario statale, obbligando ad un duro confronto con la nostra responsabilità sociale senza dare ai cittadini gli strumenti necessari per gestirla. Ciò ha causato un aumento esponenziale della paura e della insicurezza delle persone più vulnerabili16, ed il terrore della segregazione sanitaria.
In questo periodo ha scelto di andarsene Paolo Finzi, ponendo fine alla sua vita di anarchico utopista che ha reso realtà una rivista anarchica, A rivista, col suo essere profondamente non violento, “energico e mobile”, al suo lavoro di cura delle idee e degli ideali, le “illusioni” di cui scrive Leopardi… “La filosofia ci ha fatto conoscer tanto che quella dimenticanza di noi stessi ch’era facile una volta, ora è impossibile. O la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile, e la vita tornerà ad esser cosa viva …o questo mondo diverrà un serraglio di disperati, e forse anche un deserto”.
di Francesca Palazzi Arduini
collaboratrice da fine anni ’80 di A rivista anarchica, per la quale si è occupata di politiche vaticane e morale cattolica, diritti civili, femminismi.
Articolo pubblicato su Non Mollare – Critica LIberale del 07/12/2020
1 Vedi il suicidio del grande regista Mario Monicelli, nel 2010, ricoverato in ospedale a 95 anni per un tumore.
2 Da ricordare innanzitutto le ricerche sul campo della dott. Elisabeth Kübler-Ross, autrice de La morte e il morire (1976), Cittadella editrice, Assisi, 2017