L’11 giugno scorso poco dopo la mezzanotte, un presidio di lavoratrici e di lavoratori è stato premeditatamente aggredito da una squadra paramilitare scatenata di fronte all’azienda di logistica Zampieri Holding di Tavazzano (Lodi), causando nove feriti con l’inerzia delle forze di polizia presenti.
Il presidio era organizzato dalle lavoratrici e dai lavoratori dell’Ex Fedex di Piacenza in lotta da tre mesi per la difesa del proprio posto di lavoro: una lotta questa che, guidata dal sindacato SI – COBAS, ha dato voce alle lavoratrici e ai lavoratori del facchinaggio della logistica, fino ad allora del tutto prive e privi di rappresentanza sindacale.
Neanche una settimana dopo, il 18, è la volta di Adil Belakhdim, esponente dello stesso sindacato, travolto criminalmente da un camion durante un picchetto davanti ai magazzini Lidl di Biandrate (Novara).
Queste aggressioni non costituiscono fatti isolati ma anelli di una catena di sangue lunga diversi anni, a partire da Khalil El Akhiri, pestato a sangue il 25 aprile del 2016, e da Abdesselem El Danaf, sempre travolto da un camion durante un presidio alla GLS di Montale.
Mentre lo schieramento governativo e padronale è intento a nascondere con l’ottimismo la propria deriva autoritaria si acutizza la pervicace volontà di isolare e reprimere le lotte delle lavoratrici e dei lavoratori, facendo leva sulla frammentazione del mondo del lavoro e sulla repressione anche poliziesca (vedi i fatti di marzo scorso), che esce dal silenzio solo quando raggiunge picchi drammatici. Così è che governo, confindustria, banca d’Italia e unione europea intendono convincere che la ripresa è alle porte e che si prospetta un nuovo boom economico che sarebbe, se non proprio in atto, almeno imminente.
In realtà si spaccia per boom un fisiologico rimbalzo che potrebbe portare l’economia italiana ad accumulare tra il 2021 e il 2022 un incremento pari a circa l’8% del PIL: ma il condizionale è d’obbligo perché, anche se un simile incremento si verificasse, l’economia italiana sarebbe ricondotta ai livelli comunque inferiori a quelli maturati intorno al 2007.
Inoltre questa ottimistica previsione si basa su di una stima ingiustificata della ripresa economica di USA e Cina, ripresa che dovrebbe trainare l’economia mondiale nella fase post (post?) pandemica.
Ancora una volta il condizionale è d’obbligo poiché queste due potenze non stanno cooperando per il rilancio dell’economia mondiale ma si stanno concretamente fronteggiando, nel contesto dei rapporti imperialistici per il controllo del mercato globale, in uno scontro che potrebbe ancor più coinvolgere anche altre potenze continentali e di area quali Russia, Europa e Turchia.
E’ in questo scenario che l’aumento delle materie prime, il riaccendersi dell’inflazione con il conseguente aumento dei tassi di interesse e della massa del debito pubblico, possono costituire le premesse di una nuova crisi economica, aggravata da insorgenti varianti del virus. L’ottimismo smerciato così a buon mercato da governo, istituzioni e capitale finanziario multinazionale serve solo a confondere le idee per annebbiare i cervelli in vista dello sblocco dei licenziamenti e, soprattutto, in vista della gestione dei miliardi del “recovery plan” che devono essere gestiti interamente dalle forze del capitale senza mediazione sindacale, lacci e lacciuoli e, soprattutto, in assenza di conflitto sociale. E se le conquiste realizzate dal movimento sindacale in decenni di lotta (CCNL, statuto dei lavoratori, sicurezza sul lavoro…) sono state in gran parte aggredite e progressivamente svuotate negli ultimi decenni da forme di precarizzazione selvaggia e da una totale deregolamentazione di gran parte del mondo del lavoro, al cui affermarsi il sindacalismo confederale non può dirsi estraneo, l’esempio italiano di gestione dei fondi per la ripresa si contraddistingue per autoritarismo e per la storica connivenza con il malaffare. Il tentativo di cancellare per 5 anni il codice degli appalti, già largamente insufficiente a contrastare la penetrazione mafiosa a ogni livello, momentaneamente rallentato, almeno per quanto riguarda la l’elevazione del limite ai subappalti (con l’evidente obiettivo di abolire del tutto ogni limite, come d’altronde richiede da tempo l’Unione Europea) e l’introduzione di trattamenti economici e contrattuali per le maestranze in subappalto non inferiori a quelli previsti per quelle dell’impresa appaltante, indica chiaramente la direzione che governo e padroni intendono perseguire: qualunque residua forma di tutela deve essere al più presto posta nella condizione di non nuocere, se non di fatto abolita e sostituita con il ricatto occupazionale, con il massimo della flessibilità e della discrezionalità dell’organizzazione del lavoro e della dinamica salariale, riducendo ai minimi storici il ruolo dei CCNL, il sistema pensionistico e il welfare con devastanti concessioni al privato (vedi l’incontrastato espandersi del welfare contrattuale), nella fattispecie dell’assistenza sanitaria e dell’istruzione pubblica di ogni ordine e grado. L’intento è quello di incrementare e di generalizzare lo sfruttamento della forza lavoro manuale e intellettuale, al fine di realizzare e accumulare quote sempre crescenti di profitti anche a scapito della salute e della sicurezza, che diviene così un costo che può e deve essere costantemente contenuto, come la strage in atto sui posti di lavoro drammaticamente e quotidianamente dimostra.
Inoltre il governo Draghi si ripropone il rilancio di tutte quelle grandi opere infrastrutturali inutili, costose e a altissimo impatto ambientale, che dietro una demagogica e per altro traballante impostazione “verde” celano la precisa volontà di accrescere gli interessi dei grandi gruppi finanziari a scapito della salute dell’ambiente e delle popolazioni. Anche il terzo delle risorse previste dal PNRR destinate ad interventi a livello territoriale, risorse capaci di definire precise implementazioni di sviluppo e programmazione, saranno gestite senza dibattito pubblico e confronto politico e sociale e, soprattutto, senza nessuna possibilità di intervento e di controllo per qualunque soggetto collettivo nei territori di destinazione. Considerando che il PNRR costituirà, almeno per i prossimi sei anni, un fortissimo strumento di condizionamento delle politiche ordinarie che saranno per gran parte caratterizzate dalla complementarità e dalla sinergia con gli obiettivi del PNRR medesimo, è chiaro che siamo di fronte a una drastica ristrutturazione del sistema produttivo nell’ottica del concentramento dei profitti, della limitazione delle tutele e della repressione del conflitto di classe.
L’unità nazionale che si è creata attorno al governo Draghi non tende quindi alla riedizione della concertazione, così come il movimento sindacale confederale irresponsabilmente auspica concedendo così ampio sostegno al governo Draghi al fine di rilanciare il proprio ruolo sempre più incerto. Ma la fase della mediazione sociale che vedeva accresciuto il ruolo delle organizzazioni sindacali confederali è storicamente declinata e oggi l’obiettivo del capitale è, se vogliamo, semplificato: la crisi la devono pagare interamente le classi subalterne, senza alcuna mediazione sindacale.
In questa prospettiva risiede l’intento di criminalizzare il conflitto sociale riducendolo a una questione di ordine pubblico, come dimostrano le sempre più frequenti aggressioni alle mobilitazioni che agitano i settori più conflittuali, non a caso formati prevalentemente da manodopera immigrata e marginalizzata, capace comunque di esprimere forme di lotta anche radicali non gestibili dal sindacalismo confederale se non nelle ricadute contrattuali, ma che si sono dimostrate in grado di rappresentare queste lavoratrici e questi lavoratori modificando significativamente le loro condizioni di vita.
Per contrastare l’offensiva padronale in atto e l’insorgente deriva autoritaria, ma soprattutto per tornare a vincere, è necessario e urgente ricostruire un tessuto di solidarietà militante attraverso un tenace intervento per unificare l’intero movimento sindacale oltre alle sigle di appartenenza, coinvolgendo gli strati giovanili e anziani del movimento di classe, la manodopera immigrata, il precariato, le vaste e disgregate aree di disoccupazione e di sotto occupazione non tutelate e prive di rappresentanza nello specifico della condizione delle lavoratrici, che in misura maggiore hanno risentito degli attacchi di questa crisi, collegando le vertenze del mondo del lavoro e a quelle dei territori dove si sviluppano le lotte alle devastazioni ambientali, superando le contrapposizioni identitarie e le diffidenze storicamente sedimentate.
Ciò può essere raggiunto a condizione che le militanti e i militanti della lotta di classe riescano a articolare obiettivi unificanti quali:
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riduzione dell’orario di lavoro a parità di paga;
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forti aumenti salariali nel settore privato e pubblico;
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prolungare il blocco dei licenziamenti;
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rivendicare e sostenere forme di solidarietà e di sostegno alle vertenze (anche come casse di resistenza e di mutuo soccorso autogestite) nei posti di lavoro nei territori;
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contrastare la repressione con forme articolate di controinformazione superando logiche identitarie in favore di una ricostruita unità di classe.
Rivendicare investimenti per:
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rilanciare la sanità e l’istruzione pubbliche, unitamente al sistema pensionistico contrastando le forme di privatizzazione e di welfare contrattuale;
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la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro;
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rilanciare i trasporti pubblici, per una concreta mobilità sostenibile
eunitamente a forme di risparmio energetico per contrastare efficacemente
Sono questi gli obiettivi per la ripresa dell’opposizione sociale ai piani del capitale e per tornare a vincere, ponendo le prospettive per l’unità di classe dell’intero movimento di lotta.