“Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtú, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio.
È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore”
( 1847 Karl Marx . “Miseria della Filosofia” )
Riduzione dell’orario
Una sola lotta unitaria e generalizzata contro i licenziamenti
Solo rapporti di forza favorevoli alla classe lavoratrice, possono difendere le nostre condizioni di vita ed essere elemento di ulteriori avanzamenti sociali per le nuove generazioni, per le donne e per tutti i ceti subordinati.
Chiusure di fabbriche, siti produttivi ed i relativi licenziamenti collettivi da parte padronale continuano a sommarsi, nonostante, o forse sarebbe meglio dire, a causa dell’ “avviso comune”, firmato dai sindacati CGIL CISL e UIL con Governo e controparti datoriali il 30 giugno scorso.
Uno dei casi più odiosi è stato il licenziamento dei 422 operai diretti che con i lavoratori e le lavoratrici dell’indotto arrivano a 500, avvenuto via mail il 9 di luglio scorso, da parte del Fondo finanziario inglese Malrose, proprietario della GKN Driveline di Campi Bisenzio, fabbrica del settore “automotive”.
A questa chiusura ed al licenziamento collettivo si è prontamente aggiunto la Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto con 152 lavoratori diretti, la multinazionale tedesca dei detersivi Henkel a Lomazzo, in provincia di Como, con 81 lavoratori e lavoratrici, la Abb, multinazionale svedese, che produce impianti elettronici, che ha annunciato la chiusura della fabbrica di Marostica, nel vicentino, che occupa 60 operai, la Logistica Italia SpA a Bologna, che in sintonia con il padronato della GKN, con un mero messaggio su Whatsapp, ha annunciato nei primi giorni di agosto, il licenziamento di 90 lavoratori, a cui vanno aggiunti i lavoratori e le lavoratrici di quei stabilimenti chiusi da tempo, come nel caso della Whirpool a Napoli quelli di ex Embracco a Riva di Chieri e delle mille altre vertenze e chiusure che non fanno notizia sui giornali.
Al Ministero dello Sviluppo Economico (Mise) sono tuttora aperti 99 tavoli di crisi, per l’ammmontare di 55.817 posti di lavoro in ballo.
Appare più che evidente come la logica dell’accordo con Confindustria, Presidenza del Consiglio e dal Ministero del Lavoro, ennesimo perseguimento della pratica concertativa da parte delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, a sua volta figlia della logora e fallimentare logica del patto dei produttori, declinata nelle più diverse formule cogestionarie e collaborative con il padronato, sia una semplice farsa che non protegge e difende alcunchè.
Solo rapporti di forza favorevoli alla nostra classe, alla classe lavoratrice, possono difendere le nostre condizioni di vita ed essere elemento di ulteriori avanzamenti sociali per le nuove generazioni, per le donne e per tutti i ceti subordinati.
Pensare di poter piegare la tracotanza padronale e la resistenza governativa, come è avvenuto poco prima dell’accordo del 30 giugno, esclusivamente con tre manifestazioni nazionali ed altrettanti comizi, per di più partecipati quasi esclusivamente dagli apparati sindacali, può essere descritta nell’accezione più benevola, come una prassi velleitaria, quano concretamente dimostrarsi e risolversi totalmente in una pratica collaborativa e subalterna.
Rinunciare ad unificare le lotte delle masse lavoratrici, dividendo categoria per categoria o per singola fabbrica o sito produttivo, non individuare e lottare per obiettivi unificanti, rinunciare aprioristicamente a lotte generalizzate e durature, non può che portare tali risultati.
La contraddittorietà e la costante rapina del sistema economico capitalistico non può certo essere modificato a seconda della più o meno presenza dello Stato nell’economia.
A fronte di tale situazione, una delle più drammatiche in cui la nostra clase si trova in questi ultimi 50 anni, c’è chi invoca, anche in settori politici e sindacali di sinistra più o meno radicale ed autodefinitesi antagonisti, un ritorno della mano pubblica nell’industria, chi vuole le nazionalizzazioni, chi una nuova politica industriale e chi dice che l’unica strada è ritornare alla programmazione economica di keynesiana memoria.
In realtà la fase economica odierna già vede effettivamente una crescente presenza della mano pubblica nell’economia e una vasta presenza del capitale pubblico nelle principali aziende.
Vediamo, seppur per sommi capi, come la presenza della mano publica si è presentata nella storia passata e più recente e soprattutto con quali risultati.
La Grande Depressione del 1929 e la Seconda Guerra Mondiale spinsero molti governi ad assumere un ruolo più attivo nella sfera economica.
Oltre alle telecomunicazioni, dei servizi postali, delle compagnie aeree o delle ferrovie, i governi hanno iniziato a concentrarsi su nuovi settori come il manifatturiero.
Un esempio di questi nuovi investimenti fu l’IRI, il nostro ex ente pubblico economico italiano con funzioni di politica industriale che seppure istituito nel 1933, sotto il regime fascista, aumentò dal dopoguerra i suoi settori di intervento fino a diventare, negli anni ’80 del secolo scorso, un gruppo di circa 1000 società; dalle maggiori banche di interesse nazionale, quali Credito Italiano o Banco di Roma alla siderurgia Finsider, alla meccanica con Fincantieri, alle costruzioni e telecomunicazioni con la STET, al trasporto ed alla mobilità con Fimare, Alitalia, Autosrade, compreso settori alimentari con la SME e molte altre partecipazioni.
Ciò nonostante a partire dalla fine degli anni ’70, quelli che nella letteratura economica vengono indicati come i “30 anni gloriosi” (1945- 1973) e fino agli anni ‘ 90 la crisi economica, con la discesa dei lauti profitti realizzati a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, politicamente coincidenti con l’avvento di Margaret Thatcher in qualità di primo ministro britannico e di Roland Reagan come Presidente degli USA, si è sviluppato ed affermato un processo spinto di privatizzazioni delle società pubbliche.
Da allora e fino ai primi anni Duemila, le privatizzazioni hanno segnato il contesto economico europeo, considerando la proprietà statale come un ostacolo che limitava la piena efficienza dei mercati.
Paesi come Austria, Danimarca, Paesi Bassi, Spagna o Svezia hanno sviluppato propri piani di ristrutturazione degli enti pubblici ed a partire dal 1993 i piani più ambiziosi sono stati attuati attraverso l’Unione Economica e monetaria, introdotta subito dopo la ratifica del Trattato di Maastricht nel 1992 , il quale fissando il possibile disavanzo pubblico al di sotto del 3% del PIL come condizione fondamentale per l’integrazione nell’UE ha favorito e giustificato ideologicamente l’ondata di massicce privatizzazioni. Tuttavia, anche questa enorme processo mondiale di privatizzazioni ha toccato il fondo a causa della crisi sopraggiunta nel 2008.
Tale crisi economica ha posto fine a decenni di privatizzazioni ed ha fortemente messo in crisi il modello ideologico liberista oltremodo superato con l’avvento dell’attuale pandemia.
” Non esiterò a utilizzare tutti i mezzi a disposizione per tutelare le più importanti società francesi. Raggiungeremo questo obiettivo attraverso la ricapitalizzazione, l’acquisizione di azioni, e posso anche usare, se necessario, il termine nazionalizzazione ” , (1) ha dichiarato nel marzo 2020 il ministro francese dell’economia e della finanza Bruno Le Maire.
L’Ungheria e la Polonia hanno rafforzato per anni le loro strutture commerciali pubbliche per ottenere l’autonomia e indebolire la proprietà straniera e nonostante la corrente narrazione sulla idiosincrasia dell’intervento statale nelle società private nell’economia, la Germaniae d il governo Merkel, maggiore potenza economica all’interno dell’unione europea, lo scorso maggio ha salvato la compagnia aerea Lufthansa con una commissione di 9 miliardi di euro in cambio del 20% delle sue azioni.
Il crollo dell’economia europea, plasmata da più di venti anni dall’esaltazione del“laissez-faire” , presunta nuova frontiera della globalizzazione e coperta ideologica della borghesia mondiale, ha restituito allo Stato un ruolo centrale, anche a causa della aumentata competizione internazionale, all’interno della quale si è fatta strada sempre un nuovo protagonista come la Cina, che proprio attraverso la sua economia di capitalismo di stato, a partire dalla crisi economica del 2008, ha avuto performance migliori, tali da avere, ben 67 imprese di proprietà statale fra le 69 imprese cinesi presenti fra le 500 aziende più importanti nel mondo (dati 2014).
Negli ultimi 15 anni, attraverso statalizzazioni, come nel caso della tedesca Commerzbank nel 2009 o la spagnola Bankia nel 2012, le società pubbliche sono nuovamente e pesantemente coinvolte in Europa. Appena un mese dopo aver abbassato le tasse degli Stati membri per alleviare i danni della pandemia, nell’aprile 2020, la Commissione europea ha modificato il quadro temporaneo degli aiuti di Stato per facilitare l’intervento statale. Da allora, i governi europei hanno dedicato un’ingente somma di denaro per mantenere a galla il loro settore di attività, principalmente attraverso sgravi fiscali, indennità, prestiti e, dopo la recente approvazione della Commissione, acquisti di azioni.
Inoltre molte aziende non riusciendo a far fronte al rimborso dell’importo pagato, hanno ricorso a scambi di debito in azioni o espropri a favore dei governi. Per il momento, il quadro temporaneo degli aiuti di Stato sarà valido fino a dicembre 2021.
In ordine di tempo, se le banche sono state le prime aziende nazionalizzate durante l’ultima crisi economica del 2008, oggi tocca alle compagnie aeree.
Oltre alla già citata patecipazione azionaria in Germania con l’esborso di 9 miliardi di euro a Lufthansa e 1,25 miliardi di euro a TUI, il gruppo più importante e grande del turismo tedesco, la Commissione Europea ha già approvato in Finlandia, con 286 milioni a Finnair; in Lettonia, con 250 milioni ad airBaltic; in Danimarca e Svezia, con un miliardo di euro tra i due per SAS.
L’Italia dopo aver sostenuto la ricapitalizzazione di Alitalia, alla fine ha optato per la creazione di una nuova compagnia pubblica aerea sostitutiva, l’Ita, che oltre a contenere capitale pubblico determinerà ulteriori riduzioni del personale ex Alitalia.
Nel frattempo, la Francia ha finanziato con 5 miliardi di euro la Renault e 7 miliardi ad Air France. Il ministro delle finanze francese, Bruno Le Maire, ha annunciato all’inizio dell’anno che “il peggio deve ancora venire” e ha riconosciuto che “il 2021 vedrà più fallimenti del 2020”.(2)
Tuttti questi riaggiustamenti stanno creando, nei fatti, una discreta asimmetria dei singoli stati menbri dellaUE rispetto a quote di economia pubblica in particolare più evidenti nel settore energetico: nel 2014 le aziende statali coinvolte nella capacità totale di generazione di energia spagnola rappresentavano il 5%, davanti solo al Portogallo.
La cifra era del 22% in Italia, del 30% in Germania e del 70% in Francia. Inoltre, in tutta l’UE, ogni Stato membro possiede almeno un’impresa pubblica, principalmente nel campo della generazione e del trasporto di energia elettrica statale, regionale o provinciale, con le sole eccezioni di Spagna e Portogallo.
Al contrario, la Francia possiede la maggior parte delle azioni Areva (88,41%), leader mondiale nel nucleare, ed EDF (84,94%), primo produttore e distributore di energia elettrica in Europa.
È anche il caso dell’Italia, che possiede il 69,17% di Enel Green Power, leader mondiale nella produzione di energia rinnovabile.
Queste diversità economiche rendono e renderanno il progetto della formazione di un polo imperialistico europeo ancora più complicato ed accidentato, ma non avranno alcuna ricaduta o miglioramento delle condizioni delle masse lavoratrici, le quali proprio per la prevista ed ulteriore competizione economica fra gli stati nazionali, insieme ad una prevista e massiccia introduzione di nuove tecnologie produtttive subiranno una maggiore frammentazione e precarietà.
L’invarianza del sistema economico capitalistico, che si manifesta attraverso la necessità di estrazione di plusvalore e quindi di maggiore sfruttamento della manod’opera non può certo essere modificato a seconda della più o meno presenza dello Stato nell’economia.
Per una settimana lavorativa di 30 ore
La lotta dei lavoratori e delle lavoratrici, dei giovani disoccupati, delle donne e delle nuove generazioni si deve unificare ed alllargare.
L’unità deve diventare parola d’ordine ed prassi del movimento di classe.
Gli stessi singoli Stati nazionali stanno introducendo sperimentazioni per una settimana corta e per una sostanziale riduzione degli orari di lavoro.
L’Islanda ha provato la settimana di lavoro di quattro giorni. Quattro anni di test, 2.500 dipendenti coinvolti. Un campione enorme, se si considera che ci si trova in Islanda: un paese da 356mila abitanti. Tra il 2015 e il 2019, il governo nazionale e il Comune di Rejkyavik, la capitale, hanno condotto vari esperimenti su una settimana lavorativa da quattro giorni e 35-36 ore, senza tagli di stipendio.
L’obiettivo era verificare l’impatto della riduzione di orario sulla produttività e il benessere dei dipendenti. Secondo il director of research della società di ricerca Autonomy, che ha analizzato i risultati assieme alla Association for Sustainability and Democracy, lo studio è stato “un successo straordinario”.
La ricerca ha riguardato luoghi di lavoro di vario genere, come scuole materne, uffici, servizi sociali e ospedali. Il rapporto conclude che la produttività è rimasta costante o è addirittura aumentata.
I dipendenti hanno dichiarato di accusare meno stress e di avere avuto più tempo da dedicare alla famiglia e agli hobby. Hanno riscontrato miglioramenti sia nella loro salute, sia nel bilanciamento tra vita privata e professionale.
I risultati dei test hanno permesso ai sindacati islandesi di negoziare nuovi contratti. “Al momento della pubblicazione di questo documento”, si legge nel rapporto, “l’86% dei dipendenti islandesi ha un contratto che prevede orari di lavoro ridotti rispetto al passato, oppure che dà loro la possibilità di passare a un orario ridotto in futuro”.
Anche molte altre aziende hanno sperimentato o stanno sperimentando la settimana di lavoro breve. Sul finire dello scorso anno Unilever, il gigante di marchi come Lipton e Dove, ha avviato un programma che permette ai dipendenti neozelandesi di lavorare quattro giorni alla settimana e di scegliere come distribuire quelli di riposo.
Dopo un anno di prova, l’azienda deciderà, in base ai numeri della filiale, se prolungare il regime ed estenderlo anche agli altri 150mila dipendenti mondiali. Nell’agosto 2019, Microsoft ha chiuso i suoi uffici giapponesi per tutti i venerdì.
La produttività, ha fatto sapere l’azienda, è aumentata del 40% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In Svezia, Toyota ha ridotto a 6 ore i turni di lavoro.
In Italia, la milanese Carter & Benson, società di consulenza industriale, ha lanciato a gennaio la settimana di quattro giorni a parità di stipendio.
Lo stesso ha fatto il network di affiliazione internazionale Awin, che, “dopo aver sperimentato con successo per sei mesi una settimana lavorativa di quattro giorni e mezzo”, da gennaio è passato al regime dei quattro giorni per tutti i dipendenti, inclusi quelli dell’ufficio di Milano.
Nel 2019, un analista della Banca d’Inghilterra prevedeva che la settimana da quattro giorni avrebbe soppiantato quella da cinque entro il 2050.
Nello stesso anno, il premier russo dell’epoca, Dimitri Medvedev dichiarava che “con ogni probabilità, i contratti di lavoro del futuro saranno basati su una settimana da quattro giorni”.
Il dibattito si è intensificato dopo che il Covid ha costretto ad adottare in massa lo smart working e, di conseguenza, a ripensare le modalità di lavoro tradizionali.
Nel maggio 2020, la premier neozelandese, Jacinda Ardern, ha indicato nella settimana corta uno strumento per favorire la ripartenza dopo la pandemia.
Nel Regno Unito, 45 parlamentari di vari partiti hanno firmato una mozione “per chiedere al governo di istituire una commissione che esamini la proposta” della settimana lavorativa di quattro giorni, mentre il quotidiano “Indipendent” aggiunge che un sondaggio condotto dall’agenzia di ricerche di mercato Survation, pubblicato nel luglio 2020, ha rilevato che il 63% della popolazione sostiene l’idea di una settimana di quattro giorni senza riduzione dello stipendio, “mentre solo il 12% si oppone”.
Come si vede la stessa borghesia, attraverso i propri rappresentanti, dirigenti e manager aziendali, uomini di governo e delle stesse istituzioni discutono e sperimentano nuove strade per uscire da quello che nella testa di ogni singolo capitalista è il vero ed unico diktat : garantire e perpetuare maggiori profitti e ciò rende ancora più incomprensibile il balbettio e la reticenza delle strutture sindcali maggiormente rappresentative su questo argomento.
Oggi per le masse lavoratrici necessita rilanciare l’unica prassi che ha sempre pagato e che sempre paga: una lotta duratura, generalizzata ed unitaria.
Ognuno nel proprio posto di lavoro senza mettere in campo la forza del movimento operaio complessivo siamo destinati alla sconfitta. La lotta per essere unitaria necessita di una rivendicazione chiara, comprensibile, immediatamente spendibile, che possa coinvolgere tutti i lavoratori e le lavoratrici insieme alla gran massa dei disoccupati.
La battaglia per una drastica riduzione della giornata lavorativa, insieme alla difesa del nostro salario deve diventare l’obiettivo centrale attraverso il quale risalire la china, svolgere una battaglia finalmente acquisitiva e non più difensiva, riconquistando condizioni normative, salariali e sociali che negli ultimi 40 anni il padronato, con l’ausilio di tutti i governi, ha tragicamente ridotto e peggiorato.
Rivendicare una forte e significativa riduzione d’orario, non cadendo nella trappola della flessibilità degli orari. Unificare la lotta salariale, unire il fronte proletario, chiamare al proprio fianco le giovani generazioni e le donne, settori questi che più di altri subiscono la furia della crisi economica e sociale, determinare rapporti di forza favorevoli per la nostra classe.
Commissione Mondo del lavoro AL/fdca
(1)“Stato imprenditore La crescente nazionalizzazione delle imprese in Europa” Le aziende sotto il controllo dello Stato non sono più un tabù per i Paesi dell’Unione Europea. Dopo gli anni ’90 e l’inizio delle privatizzazioni del 21° secolo, la pandemia ha aperto le porte al capitale pubblico delle principali aziende. Alvaro Merino. Giugno 2021 European data journalism network
https://www.linkiesta.it/2021/06/aziende-europa/
(2) Idem