I tempi che stiamo attraversando convergono a creare un vero e proprio dramma, la cui causa è ben individuabile nel sistema di produzione capitalistico con tutte le sue contraddizioni. È questa una considerazione che prefigura scenari inediti, sui quali è necessario riflettere perché destinati a influire sui futuri assetti sociali e di classe, oltre che sulle medesime prospettive di un’alternativa rivoluzionaria al sistema capitalistico: un’alternativa che, nella fase attuale, appare sempre più attardarsi.
Da più parti si parla di sciopero mondiale contro la guerra, e qualche passo in quella direzione si sta obiettivamente facendo, ma sono tentativi ancora troppo modesti. Inoltre, vi sono tentativi che tendono a costruire un movimento di opinione il quale, sia pure assumendo ampie dimensioni com’è certamente auspicabile, rischia di essere recuperabile in tutto o in parte dal sistema di produzione capitalistico. Ciò è accaduto, evidentemente, a vaste componenti del movimento pacifista e verde, considerando che al recupero capitalista non sfugge nemmeno l’intero movimento di classe.
Intendiamoci: sono rischi che corre chi agisce, ne siamo consapevoli, e non sottovalutiamo certo gli sforzi altrui per creare consapevolezze che scongiurino la guerra e lo sfascio ambientale, fenomeni distruttivi questi sempre più complementari. Ma è necessario porsi una domanda: per obiettivi così vasti, complicati e urgenti, quali ad esempio la pace e la difesa dell’ambiente, qual è la strada opportuna che può condurre a rafforzare i movimenti che lottano in quella direzione?
La risposta a questo interrogativo può per il momento essere formulata solo in tendenza: bisogna individuare le filiere nelle quali si producono gli strumenti di morte e di devastazione ambientale e sviluppare le idonee strategie per contrastarle, con vittorie anche parziali in grado di riaccendere la speranza che è possibile invertire la tendenza alla sconfitta, così come è andata inesorabilmente affermandosi dagli anni ’80 del ‘900.
Ciò implica anche uno sforzo analitico al fine di sviluppare elaborazioni, poiché i problemi si ampliano e, per comprenderli, è necessario contestualizzarli per sviluppare un ragionamento. La miseria, la fame, la quotidiana dipendenza dal bisogno materiale e le radici del sottosviluppo; le guerre sempre più diffuse, combattute dalle grandi potenze imperialistiche per il controllo dei mercati, che creano morte e distruzione costringendo intere popolazioni disperate a emigrare dai propri paesi alla vana ricerca di migliori condizioni di esistenza; lo sfascio ambientale che caratterizza sempre più la nostra esistenza, insieme a una violenza quotidiana che aggredisce principalmente le classi sociali frantumate dalla crisi e per questo più deboli e meno tutelate.
I rigurgiti fascisti, razzisti e omofobi, e le loro degenerazioni omicide, frutto di una società in cui è ben radicata la reazione e che si dimostra ancora oppressa dal patriarcato, derivano da una contraddizione antica che si è mostruosamente sviluppata nella società capitalistica in cui viviamo e che giunge fino ai giorni nostri. La ricchezza sociale prodotta da due miliardi di salariati quali classe universale è spaventosamente concentrata in pochissime mani di quella classe borghese la quale, rappresentando e perseguendo esclusivamente i propri interessi particolari, è impegnata fin dalla sua origine ad accumulare nuovi profitti a scapito dell’interesse generale.
Questa è una considerazione importante, la cui assunzione ci consente di evitare le paralizzanti semplificazioni che attribuiscono la drammatica condizione generale del nostro pianeta ai “comportamenti umani” e alla loro natura (genetica?) orientata verso il male.
Certamente. Ecco il testo riformattato:
Sono molte e molti che, infatti, individuano “nell’essere umano” le responsabilità della guerra e dello scempio ambientale quando, invece, queste sono una componente ineliminabile del processo di produzione capitalistico e del suo sistema sociale, così come non ci stanchiamo di documentare con fissità.
Quindi non può esistere nessuna valida opposizione alla guerra, alla distruzione dell’ambiente e al perseguimento della libertà in tutte le sue implicazioni, al di fuori di una consapevolezza anticapitalistica. Per un mondo migliore, devono trionfare gli interessi universali di un’umanità liberata dallo sfruttamento e non quelli particolari di un’unica classe al potere, la borghesia, che si appropria di tutta la ricchezza sociale prodotta al fine di perpetrare il proprio dominio.
Un altro aspetto che ci interessa affrontare è quello dell’antisemitismo.
Sarebbe più utile che interessante prendere in esame la genesi storica di questo drammatico fenomeno sociale, ma quella di un editoriale non è certo la sede più idonea per farlo. Ci limiteremo quindi a alcune semplici considerazioni che speriamo giovino a fare un poco di chiarezza al riguardo e, nel farlo, cercheremo di riferirci a fenomeni concreti.
Così come ha affermato recentemente un giornalista, oggi l’antisemitismo “è come il beige, va bene su tutto,” considerando che questo termine è usato come una clava contro ogni opposizione alla volontà del governo israeliano di risolvere la questione palestinese “manu militari,” una volta per tutte, invocando il proprio diritto alla difesa e con la complicità diretta degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. Per cui: chi si schiera contro il bagno di sangue consapevolmente perpetrato da decenni dai governi dello Stato di Israele contro la popolazione civile della Palestina è, senza appello, un antisemita.
È questa un’accusa gravissima proferita a profusione dall’informazione di regime, un’accusa palesemente fuori contesto e che si configura come una calunnia perché annerendo le altrui posizioni è più facile irriderle.
Una popolazione, qualunque essa sia, non è assimilabile alle politiche dello Stato nel quale vive e, in particolare, lo Stato di Israele e il governo che lo rappresenta non sono assimilabili alla popolazione ebraica nel suo complesso, dato che vi sono numerosissime e numerosissimi esponenti dell’ebraismo mondiale che sono radicalmente contro la politica genocida del governo israeliano, che la giustifica invocando il proprio diritto alla difesa in conseguenza del bagno di sangue perpetrato il 7 di ottobre del 2023 dalle milizie di Hamas ai danni della popolazione civile dello Stato di Israele.
Una delle consapevolezze del comunismo anarchico è costituita proprio dalla coerenza tra mezzi e fini, per cui un fine legittimo perseguito con mezzi illegittimi deforma il fine medesimo e lo rende pertanto imperseguibile.
È questa una consapevolezza che l’anarchismo ha maturato non in base ai principi etici che pure propugna ma, soprattutto, accompagnando la nostra classe nel travagliato percorso da questa intrapreso per l’emancipazione dall’oppressione borghese e capitalista, dai suoi Stati e dai suoi apparati di dominio e di oppressione, dalle sue guerre, dai suoi miti e dalle sue ideologie. Mai, in ogni circostanza, il fine può giustificare i mezzi: non si spara sulla popolazione civile, mai, in nessun caso.
Per questo l’azione che Hamas ha perpetrato il 7 di ottobre è da assimilarsi a quelle che il governo israeliano sta attuando contro la popolazione civile palestinese. Sono azioni complementari, tipiche degli apparati statali e dei gruppi di potere, costituiti da borghesie e da settori di borghesia, che invocano il concetto astratto di popolo per legittimare il loro dominio totale o parziale e che trascinano con sé le conseguenti e drammatiche logiche reazionarie.
Da questo punto di vista non si è antisemiti se si condanna l’oppressione perpetrata dal governo israeliano contro la popolazione civile palestinese, così come non si è antiislamici se si condanna l’azione criminale perpetrata dalle milizie di Hamas contro la popolazione civile israeliana.
Si dice che Hamas rappresenti la resistenza palestinese, ma è più corretto affermare che la domina, o cerca di farlo anche ricorrendo alla strage indiscriminata per acquisire credibilità presso le proprie masse di riferimento.
La strage del 7 ottobre è quindi l’ultimo atto di una guerra combattuta tra il governo israeliano e quelle componenti che come Hamas intendono realizzare la propria egemonia sulle masse palestinesi. È una guerra per il predominio, dietro la quale si celano interessi di potenze imperialiste e di area: una guerra che, come tutte le guerre, è combattuta contro le popolazioni civili.
D’altronde le lotte per la liberazione nazionale hanno anche visto nazioni oppresse trasformarsi a loro volta in nazioni che opprimono: esempi a bizzeffe, a partire proprio dagli Stati Uniti i quali, una volta liberatisi dal dominio coloniale, sarebbero divenuti oppressori a loro volta di altri paesi e popolazioni.
Anche le masse ebraiche, storicamente oppresse fino al genocidio della Shoà, una volta costituito il loro Stato nazionale hanno iniziato a opprimere le masse palestinesi, le quali a loro volta si sono riproposte e si ripropongono la distruzione dello Stato di Israele per motivi nazionali, razziali e religiosi: in entrambi i casi in una tragica replica di vendette ataviche e di odi ancestrali che rimandano alla costituzione degli stati nazionali, anche nel caso di quelli sorti da una rivoluzione.
È questo il caso dell’Unione Sovietica sorta in conseguenza di una rivoluzione socialista, rapidamente trasformatasi in capitalismo di Stato retto dalla ferrea dittatura di un partito comunista per la costruzione del socialismo in un paese solo, in una transizione rapida che, a sua volta, si sarebbe risolta in una vera e propria configurazione imperialistica.
Non si tratta di invocare astrattamente l’internazionalismo dei popoli, come troppo spesso accade di vedere in ambiti rivoluzionari, ma quello più concreto delle classi oppresse anche dalle rispettive borghesie più o meno forti e rappresentative costituitesi in nazioni o che tendono a farlo. L’internazionalismo non può essere ridotto a slogan autoreferenziali ma deve divenire una finalità strategica da declinare nella realtà per l’unità del proletariato mondiale contro l’oppressione capitalistica.
Si può affermare che queste sono certamente belle parole, come le proposte e gli obiettivi che si sprecano al riguardo: ma chi è che li porta avanti, evitando che restino lettera morta, o che siano recuperati o neutralizzati dal medesimo sistema capitalistico che combattiamo? Come è possibile restituire speranza nel cambiamento?
Torniamo a ripeterlo: quello che manca e che deve essere costruito con urgenza è un tessuto militante organizzato, che sia in grado di definire, e soprattutto articolare, proposte e programmi al fine di creare nuove consapevolezze capaci di sostenere l’opposizione sociale al sistema capitalistico e agli orrori che produce.