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Quel +0,7% di crescita che non arricchirà i lavoratori.

L’esultanza in ambiti governativi per il prodotto interno lordo italiano a +0,7% in aprile 2015, dopo tre anni di recessione, non ci deve contagiare.

Noi lavoratori e lavoratrici, precar* e disoccupat* non abbiamo nulla da esultare, perché si tratta di un risultato che non avrà nessuna conseguenza sull’andamento dei salari e dell’occupazione, in quanto esaurirà i suoi effetti nel contenimento del deficit pubblico e nella corsa a tappe forzate verso quel pareggio di bilancio previsto dalle politiche di austerità dell’Unione Europea.

Non abbiamo nulla da esultare, perché sappiamo quali sono stati in questi 7 anni i costi e le macerie sparse nel tessuto sociale del paese che stanno al di sotto di questo dato: tra il 2008 ed il 2014 un saldo di 1 milione di posti di lavoro persi; centinaia di migliaia di imprese chiuse; il numero di famiglie in difficoltà è raddoppiato; il crollo della capacità di acquisto dei redditi da lavoro; l’aumento brutale del saggio di sfruttamento.

E sappiamo quali misure governative siano state prese contro i diritti dei lavoratori con la distruzione del contratto collettivo, con la flessibilità di mansione o di esercizio ed i controlli a distanza introdotti dal Jobs Act, con la approvazione della legge 107 sulla scuola a cui sta per aggiungersi quella sul Pubblico Impiego.

Non possiamo esultare, perché quel +0,7%, che il governo stima diventerà un +0,9% alla fine del 2015 e persino un +1,8% nel 2016 è una posta pesante nella partita che il governo intende giocarsi sullo sfruttamento e relativa valorizzazione capitalistica di interi pezzi del territorio, dei mari e delle coste per progetti di privatizzazione, controllo e commercializzazione di risorse energetiche autoctone ed estere.

Non dobbiamo nemmeno farci trascinare nei se e nei ma altrui: troppe sono le incognite e le sfide internazionali che ci dicono incombono sulla nostra sorte.

Dovremmo confidare nella Banca Centrale Europea affinché stampi altri nostri 60 miliardi di euro per sostenere le banche (che poi non sostengono nessuno)? Che l’euro stia basso così le esportazioni europee vanno a gonfie vele? O dovremmo tifare per le svalutazioni anti-imperialiste della moneta della Repubblica Popolare Cinese? Oppure implorare che la Federal Reserve degli Stati Uniti non alzi i tassi d’interesse? Pregare che i mitici BRICS diano ancora ossigeno ai mercati? Sperare che si producano sempre più milioni di barili di petrolio al giorno, così il prezzo scende, ma senza che se ne vedano gli effetti nelle nostre sdrucite tasche?

O non dovremmo piuttosto guardare ai 150 milioni di lavoratori scesi in sciopero in India per i loro diritti pochi giorni fa, ai durissimi scioperi operai ad esempio in Brasile ed in Cina?

I numeri a saldo positivo del capitalismo non ci devono ingannare. La realtà che sta uscendo da lunghi anni di crisi non ci consente di rilassarci.

I radicali mutamenti intervenuti ed ancora in corso nel mondo del lavoro ci inducono a prendere atto:

  • che occorre impegnarsi nella vertenzialità nei luoghi di lavoro, la quale -se da un lato permette (ove possibile e sapendo costruire favorevoli rapporti di forza alla base) di vincere nei contratti aziendali, dall’altro non è più però sufficiente a dare forza globale all’organizzazione di massa dei lavoratori;

  • che la crisi dei sindacati, tradizionali e/o alternativi, richiede comunque la nostra presenza ed il nostro presidio come iscritti, come delegati e come dirigenti eletti, per ri-costruire capacità di lotta e di rappresentanza dal basso nei posti di lavoro, nella pratica di vertenzialità;

  • che nei territori è necessario ri-costruire tessuto sindacale e capacità di solidarietà sindacale a partire dalle esperienze conflittuali più avanzate di collettivi, centri sociali, coordinamenti;

  • che occorre sostenere la capacità di costruire lavoro tramite la sperimentazione di cooperative autogestite all’interno di un progetto sociale alternativo.

Le possibilità ed i soggetti di resilienza si esprimono oggi soprattutto nelle lotte nel territorio, dal diritto alla casa al diritto ad un ambiente sano, dall’opposizione alle grandi opere inutili alle mobilitazioni contro i progetti di sfruttamento scellerato di terre, acque e mari, dall’opposizione alla aziendalizzazione dell’istruzione alle mobilitazioni contro il razzismo; dall’accoglienza dei profughi alla sperimentazione di forme di produzione e distribuzione autogestite.

In questi mesi, in queste lotte, in queste realtà il ruolo degli anarchici e dei libertari è quello di aprire i recinti, di sconfinare, di costruire ponti o trovare guadi, di collegare le realtà conflittuali, le soggettività sociali nella costruzione del potere popolare autogestionario, radicato negli interessi immediati e storici degli sfruttati.

Consiglio dei Delegati
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