Alternativa Libertaria_FdCA

“Ancora una volta il covid-19 ha velocizzato l’arrivo del futuro nel mondo del lavoro”, così si esprime
Saadia Zahidi, amministratrice delegata del Forum economico mondiale (1) e come un controcanto il
Fondo Monetario Internazionale (FMI) avverte: “La robotizzazione, che in Asia è già piuttosto avanzata,
potrebbe sostituire un numero ancora più alto di lavoratori non qualificati. Le diseguaglianze
aumenterebbero e potrebbero sfociare in disordini sociali, che a loro volta sono un ostacolo alla crescita
economica”.
Nello studio del Forum economico mondiale si constata che le economie emergenti dell’Asia hanno
raggiunto un livello di sviluppo e di conseguenza anche un livello salariale che rende conveniente l’uso
dei robot, che contemporaneamente hanno visto ridotto il loro prezzo grazie a una loro diffusione in
continua crescita.
Nell’arco di cinque anni potrebbero sparire 85 milioni di posti di lavoro, uno scenario che spazzerebbe via
i guadagni in termini occupazionali accumulati dopo la cisi finanziaria globale del 2008, facendo
aumentare ancora una volta le diseguaglianze economiche a scapito di quelle classi lavoratrici e quella
forza lavoro formata da quelle sterminate masse di ex contadini che sopravvive negli interstizi delle
metropoli asiatiche e che con i loro magri salari fanno comunque sopravvivere le loro famiglie rimaste nei
villaggi di provenienza, rendendo altresì conveniente per il capitale globale la produzione di merci in quei
territori.
La crisi scatenata dal Covid-19 ha evidenziato nitidamente che i robot non si ammalano; lavorano
nonostante il lockdown, non si rifugiano nei loro villaggi di provenienza quando tutto va male.
In India quasi il 60% delle aziende vuole promuovere l’automazione. In Indonesia il 48 % dei lavoratori
rischia il posto. In Malesia, dove lo sviluppo economico è più avanzato, l’86% delle aziende pianifica di
passare a una rapida automazione.
Sempre secondo il Forum economico mondiale il 43% delle aziende di tutto il mondo ha dichiarato che
entro il 2025 ridurrà la forza lavoro a causa dell’automazione e dello sviluppo tecnologico, mentre la
Banca Mondiale ipotizza che la pandemia abbia riportato circa 90 milioni di persone in condizioni di
povertà estrema, con un reddito inferiore a 1,90 dollari al giorno.
Il divatrio tra ricchi e poveri si allarga e le previsioni dello sviluppo futuro non potrà che far aumentare
tale scenario.
In India, per esempio, il Fmi prevede un calo del PIL del 10,3% ” ed entro la metà del decennio il PIL
mondiale diminuirà del 5% rispetto al periodo precedente alla pandemia a causa della disoccupazione e
degli inestimenti privati che stanno frenando.
A fronte di tali scenari realmente apocalittici in specifico per le sorti del “giovane” proletariato asiatico,
nella vecchia europa le condizioni e le sorti dei lavoratori non sono affatto migliori.
Già in precedenti note (2) avevamo evidenziato che “la crisi avrà effetti maggiormente negativi sulle
persone con un basso reddito e con standard di vita più bassi, specie nei luoghi in cui i sistemi di
protezione sociale sono meno sviluppati o meno generosi”.
Così si esprimeva infatti, con cruda realtà il vicepresidente esecutivo della Commissione Europea Valdis
Dombrovskis, lettone e del Partito Popolare Europeo, nel collegio dei Commissari dell’Unione Europea
del 29 aprile a Bruxelles.
I lavoratori e le lavoratrici saranno il blocco sociale che pagherà pesantemente questa ulteriore crisi che si
è sovrapposta alla crisi economica del 2008 che aveva già scavato profonde cicatrici sociali nella classe
lavoratrice, nei giovani, nelle donne e nei ceti meno abbienti.
In Italia la disoccupazione crescerà all’11,8% nel 2020, dal 10% del 2019; la situazione sarà ancora
peggiore nel nostro Mezzogiorno che perderà nel 2020 circa 380 mila posti: cifra enorme che supera
quella registrata in cinque anni tra il 2009 e il 2013 quando il totale di occupati che si ritrovò a casa senza
stipendio raggiunse i 369.00.
Il Centro Nord non sta meglio in quanto deve affrontare un calo di occupati di circa 600 mila lavoratori.
In tutto sono un milione di posti di lavoro persi.
La crisi del 2008/2009 aveva colpito soprattutto il manifatturiero e le costruzioni, risparmiando in parte il

settore dei servizi che aveva assorbito quei lavoratori che si erano trovati in difficoltà, sia pure
parzialmente con effetti di peggioramento della qualità del lavoro; ora il tracollo provocato dal corona
virus ha danneggiato anche molte delle attività del terziario ben presenti nelle specializzazioni produttive
del sud.
In sostanza l’effetto negativo è stato travolgente, anche in ragione del fatto che in questi anni l’instabilità e
il precariato hanno pesato significatamente sul mercato del lavoro in generale e particolarmente piagato,
nel Sud del nostro paese,dalla sistematica diffusione del sommerso e dalla irregolarità.
In Spagna, la disoccupazione, passerà dal 14,1% al 18,9%; in Grecia dal 17,3% al 19,9%; in Portogallo
dal 6,5% al 9,7%. In Germania salirà dal 3,2% al 4%, in Francia dal 8,5% al 10,1%.
L’aumento della disoccupazione si farà sentire anche ed anzitutto nel Sud Europa, che è stato colpito in
modo più violento dalla pandemia e che aveva già tassi di disoccupazione più elevati, ereditati in parte
dalla crisi del 2008-2012, dalla quale alcune economie non si erano ancora completamente riprese.
Ma la disoccupazione non sarà un problema solo al Sud. Anche i Paesi dell’Europa Centrale e Orientale,
le cui economie sono spesso fortemente agganciate a quella tedesca, avranno decisi aumenti della
disoccupazione.
In Polonia la disoccupazione nel 2020 è attesa al 7,5%, dal 3,3% del 2019; in Slovacchia, dove il settore
legato all’ “automotive” gioca un ruolo di primo piano, dal 5,8% all’8,8%; in Repubblica Ceca dal 2% al
5%, in Ungheria dal 3,4% al 7%, in Romania dal 3,9% al 6,5%, in Bulgaria dal 4,2% al 7%, in Croazia
dal 6,6% al 10,2%.
Queste previsioni, diffuse dalla Commissione del FMI nel maggio di quest’anno erano basate comunque
su un grado significativo di incertezza dovuta alla riduzione in vaste aree del mondo del contagio per
l’approssimarsi della bella stagione ed all’auspicio di una ripresa totale dell’economia, per cui la seconda
ondata, oramai acclarata nei territori europei, peggiorerà di molto le stime definite, sulle quali cercheremo
di ragionare nei nostri prosssi interventi.
l’utopia riformista
A fronte di tutto ciò, una vera e propria barbarie, una certa borghesia, autodefinitosi liberal e progressista,
per ora maggiormente sviluppata e presente nel mondo anglosassone, formalmente ciancia sulla necessità
di andare oltre l’ossessione dei profitti e occuparsi anche dei problemi sociali e degli equilibri ecologici.
La motivazione di un nostro interesse per tale fenomeno risiede nel fatto che tali posizioni sono similari
all’elaborazione e alle strategie dei partiti progressisti europei, buona parte di derivazione
socialdemocratica e della maggioranza dei gruppi dirigenti delle strutture sindacali maggiormente
rappresentattive.
Per quanto riguarda l’Itallia, ritroviamo sostanzialmente tali posizioni nel Partito Democratico, oggi al
governo in coalizione con il Movimento 5 Stelle e la sparuta pattuglia di Liberi ed Uguali e nella stessa
Confederazione Generale Italiana del Lavoro, la CGIL, maggiore organizzazione sindacale nazionale.
Marc Benoif, amministratore delegato del colosso tecnologico Salesforce, esponente di punta di questa
tendenza, è il portavoce del “Business roundtable”, un associazione di amministratori delegati che,
attraverso una loro dichiarazione pubblica nel 2019, hanno affermato che la missione del capitalismo non
può limitarsi a garantire il massimo profitto per gli azionisti, ma ciò che necessita è occuparsi di tutti i
“stakeholder” cioè di tutti i soggetti interessati e quindi anche dei problemi sociali, razziali e climatici,
disegnando una sorta di capitalismo benevolo, capace di emendarsi, autoregolarsi, eliminando le asprezze
e le dicotomie delle dinamiche economiche e sociali.
Peccato che che alla fine di agosto 2020, quando la Salasforce ha annuciato un fatturato trimestrale
superiore ai cinque miliardi di dollari e lo stesso Marc Benoif ha sentenziato che si fosse di fronte al
trionfo del capitalismo degli stakeholder, il giorno dopo ha licenziato mille dipendenti causa Covid-19
Per altro in uno studio pubblicato il 22 settembre 2020,(3) si legge: “Dall’inizio della pandemia” ” la
Bussiness round table non è riuscita a favorire cambiamenti profondi nell’attività aziendale in un
momento di grave crisi”.
La Businnes roundtable afferma di avere a cuore gli interessi delle comunità e del’ambiente e che le
aziende possono rinunciare a parte dei profitti per proporre soluzioni a sfide come l’emergenza climatica,
l’ingiustizia razziale e la diseguaglianza economica.
Tuttavia la storia recente del capitalismo statunitense parla di salari stagnanti per i lavoratrori e guadagni
straordinari per gli azionisti. E il divario è ancora più forte a causa e durante la pandemia .
I ricercatori hanno studiato le ottocento aziende principali quotate a Wall Streett e a Londra, anche se poi

si sono concentrati sulle 619 per cui erano disponibili almeno tre anni di dati.
Nel rapporto si legge che pochissimi manager, facenti parte della Business roundtable, hanno proposto i
principi professati ai loro consigli di amministrazione dimostrando che il loro era solo un impegno di
facciata .
La banca Wells Fargo, per esempio, ha rifiutato una proposta che cercava di rendere concreto l’impegno
della Business roundtable trasformando l’istituto in una benefit corporation, una struttura giuridica che le
avrebbe permesso di dare la proiorità a questioni diverse dal profitto.
Amazon, il colosso del commercio online, multinazionale che ha aderito alla Business roundtable, è un
esempio evidente di quelle aziende che hanno realizzato grandi profitti con la pandemia e che non hanno
fatto abbastanza per proteggere i lavoratori.
Anzi Amazon è stata protagonista nella prima fase di licenziamenti dei lavoratori rei di aver organizzato
una propesta contro l’azienda che non garantiva i necessari dispositivi di protezione individuale (DPI).
Oppure Arne Sorenson, anch’essa facente parte della Business roundtable, presidente e anmministratrice
delegata della Marriot International, la più grande catena alberghiera del mondo, che a marzo ha
licenziato decine di migliaia di lavoratori affermando che la scelta era obbligata dal crollo del settore.
Meno di due settimane dopo la Marriot ha paghato 160 milioni di dollari di dividendi agli azionisti e ha
affermato: “Dobbiamo essere in grado di crescere e di trasformarci o non potremo raggiungere il nostro
obiettivo: diventare un’ azienda più grande e di maggior successo per i nostri clienti, i nostri azionisti e si
anche per i nostri stakeholder”
Proprio questa ultima dichiarazione ci permette, meglio di altre, di comprendere la caducità di analisi di
queste correnti di pensiero cosidetto liberal, così come i nostrani riformisti o progressisti, i quali, al netto
di chi è in perfetta mala fede, pensano e aspicano un sistema capitalistico compatibile con una maggiore
giustizia sociale, scevro dalle aspre contraddizioni di classe, in armonia con la natura.
Il sistema capitalistico, al di là dalle singole volontà personali, è in realtà un sistema che ineluttabilmente
conduce alla barbarie, essendo il suo motore principale la concorrenza e non la soddisfazione dei bisogni
della comunità umana.
Ecco come già dal 1844 F. Engels (4) nelle primissime analisi delle categorie economiche “schizza” una
puntuale critica all’economia politica, individuando l’interdipendenza fra la necessità del monopolio e la
concorrenza, mito ipocrita di tutti gli odierni liberals.
“La prima conseguenza della proprietà privata fu la scissione della produzione in due parti contrapposte,
la naturale e la umana; il suolo, che senza l’opera fecondatrice dell’uomo è morto e sterile, e l’attività
umana, che senza il suolo non può esplicarsi.
Abbiamo visto inoltre come l’attività umana si dividesse, a sua volta, in lavoro e capitale e come ancora
queste parti si contrappongano ostilmente. Avevamo dunque la lotta, l’uno contro gli altri, dei tre elementi
e non il loro reciproco assistersi; a ciò si aggiunge adesso il fatto che la proprietà privata comporta
l’ulteriore frammentazione di ciascuno di questi tre elementi.
Un pezzo di terreno si contrappone ad un altro, un capitale all’altro, una forza-lavoro all’altra. In altre
parole: poiché la proprietà privata isola ciascuno nella propria bruta singolarità e poiché ciascuno ha
tuttavia il medesimo interesse del suo vicino, un proprietario fondiario si oppone all’altro, un capitalista
all’altro, un lavoratore all’altro. In questo processo in cui eguali interessi divengono reciprocamente ostili
proprio a causa della loro identità giunge a perfezione l’immoralità della presente condizione dell’umanità.
Questa perfezione è la concorrenza.
L’opposto della concorrenza è il monopolio. Il monopolio fu il grido di guerra dei mercantilisti, la
concorrenza il grido di battaglia degli economisti liberali.
È facile avvedersi come questa opposizione sia assolutamente vuota. Ciascuno dei concorrenti non può
non augurarsi di avere il monopolio, sia egli lavoratore, capitalista o proprietario fondiario. Ogni piccolo
gruppo di concorrenti deve desiderare il monopolio contro tutti gli altri. La concorrenza sì fonda
sull’interesse, e l’interesse genera, a sua volta, il monopolio; in breve, la concorrenza trapassa nel
monopolio.
Dall’altra parte il monopolio non può arrestare il flusso della concorrenza, anzi la genera esso stesso,
come ad esempio il divieto di importazione o alte tariffe doganali generano addirittura la concorrenza del
contrabbando. La contraddizione della concorrenza è del tutto identica alla contraddizione della proprietà
privata.
È interesse di ogni singolo possedere ogni cosa, ma è interesse della comunità che ciascuno possieda nella
stessa misura. L’interesse generale e l’interesse individuale sono dunque diametralmente opposti.
La contraddizione della concorrenza sta in ciò, che ciascuno deve desiderare il monopolio, mentre la
comunità in quanto tale viene danneggiata dal monopolio e quindi deve eliminarlo. La concorrenza

presuppone anzi il monopolio, ossia il monopolio della proprietà – e qui si manifesta ancora una volta
l’ipocrisia dei liberali – e finché sussiste il monopolio della proprietà, la proprietà del monopolio è
parimenti legittimata.
Infatti anche il monopolio, una volta che esista, è proprietà. Quale pietosa meschinità è quindi quella di
attaccare i piccoli monopoli lasciando sussistere il monopolio fondamentale…..(quindi) risulta
completamente giustificata la nostra asserzione che la concorrenza presuppone il monopolio.”

Riduzione d’orario a parità di paga
No al ricatto occupazione
contro salario

Per una settimana lavorativa di

30 ore

La pandemia da Covid-19 a seguito delle racadute sulla produzione e sulla mobilità ha rilanciato il
dibattito sulla riduzione d’orario. In Gran Bretagna un gruppo di parlamentari ha proposto al cancelliere
dello Scacchiere Rishi Sunak la possibilità di una settimana lavorativa di quattro giorni in modo da
contrastare l’aumento dei tassi di disoccupazione causa Covid-19.
Con una lettera inviata a Sunak, i firmatari (tra cui l’ex cancelliere John McDonnell) sostengono che una
soluzione del genere potrebbe redistribuire il lavoro in questo momento di crisi.
I firmatari spiegano nella lettera che la settimana lavorativa di quattro giorni apporterebbe molteplici
benefici alla società, all’ambiente.
La proposta inglese arriva dopo che anche la neo presidente finlandese, Sanna Marin, in campagna
elettorale aveva menzionato già l’idea di ridurre la settimana lavorativa a quattro giorni, di sei ore
ciascuno.
“Le persone si meritano di passare più tempo con i propri familiari, coi propri cari, e di occuparsi di altre
cose come le attività culturali”, ha detto.
Una volta assunto il ruolo di prima ministra, Marin non ha più menzionato la proposta, salvo però tornarci
proprio in questi mesi di emergenza, sostenendo che potrebbe essere una risposta utile contro la crisi
occupazionale dovuta alla pandemia. Una riduzione di circa il 40% rispetto alla settimana lavorativa oggi
in Italia, dove al momento il tema della riduzione dell’orario di lavoro viene affrontata, sempre più
spesso, come una sorta di contratto di solidarietà in cui la redistribuzione complessiva degli orari di
lavoro si lega con una conseguente rinuncia agli aumenti retributivi in cambio del mantenimento del
posto di lavoro.
E’ il caso della filosofia che sta dietro al Fondo nuove competenze, istituito dal decreto Rilancio e
rifinanziato dal dl di Agosto, per un totale di 730 milioni di euro, che prevede la possibilità per i datori di
lavoro di ridurre l’orario di lavoro dei propri dipendenti per eventuali percorsi formativi con relativa
riduzione del salario.
Sarà questo fondo a coprire gli oneri relativi alle ore di formazione, comprensivi dei relativi contributi
previdenziali e assistenziali. (5) Come nel caso del welfare aziendale anche qui è il giro è a perdere. La
tassazione generale, che ricade all’80% sulle spalle dei lavoratori dipendenti, viene usata per fiscalizzare i
contributi previdenziali e assistenziali che dovrebbero pagare i padroni, più una cifra parte di contributi
relativi alle ore di formazione, che inogni caso non determineranno una parità di salario. In sostanza
paghiamo noi lavoratori e lavoratrici gli oneri economici che dovrebbero essere versati dalle aziende e dal
padronato, in più finanziamo con i nostri soldi la riduzione dei nostri salari.
O ancora più evidente nella proposta di legge, la numero 2327 (6) che a gennaio 2020, ancor prima
prima della emergenza Covid, il Partito Democratico ha depositato alla Camera. Tale proposta mira a
redistruire il lavoro in quattro modi diversi: contratti a tempo indeterminato meno costosi fino a 30 ore a
settimana, incentivi fiscali per i part-time volontari, part-time diffuso nella pubblica amministrazione,
penalizzazione fiscale per le ore di straordinario oltre una certa soglia. La stima è che queste misure
potrebbero portare a 750mila occupati in più all’anno per un costo di 2,8 miliardi a regime. Il tutto,
accompagnato da una riduzione delle retribuzioni.
E’ abbastanza chiaro ed evidente come le continue rinuncie dei diritti acquisiti sacrificati e scambiati dai
gruppi dirigenti sindacali riformisti con le diverse compagini governative, spesso di centrosinistra,
abbiano determinato il risultato opposto a quello che veniva ipocritamente dichiarato. La questione

occupazionale, come abbiamo visto, non è affatto risolta. Le nuove generazioni vivono una situazione
drammatica nell’impossibilità di programmare il loro futuro. La mobilità sociale che permetteva alle
nuove generazioni standard di vita minimamente decorosa, non solo si è tragicamente fermata ma corre al
contrario, facendo sprofondare settori vasti di gioventù nel precariato e nella marginalità sociale.
Le condizionoi economiche di vasti settori lavorativi una volta maggiormente garantiti sono notevolmente
peggiorate in termini di potere di acquisto e di elevate diseguaglianze; la fatica, quella fisica,nei lavori è
tornata nonostante la crescente p resenza delle tecnologie, in quanto la saturazione degli orari di lavoro è
diventata prassi comune dei processi organizzativi, sostenuta e coadiuvata dall’introduzione degli
algoritmi. Rispetto all’Italia nel resto d’Europa, gli orari di lavoro di fatto sono mediamente più bassi Le
ultime rilevazioni dell’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo eonomico (Ocse) indicano l’Italia
tra i Paesi europei con il monte ore annuale più alto, con 1.718 ore di lavoro annuali, circa 33 ore
settimanali.
Dati che considerano sia i lavoratori a tempo pieno sia il part-time e i part-year, quelli che lavorano solo
in alcuni periodi dell’anno.In questa classifica l’Italia è oltre la media europea di 30 ore settimanali. In
Olanda, ad esempio, la stessa media misura 1.434 ore l’anno, vale a dire 27,5 ore settimanali, mentre in
Danimarca si scende fino a 1.380 ore annuali. Stesso discorso per la Germania, che ne conta 1.386 in un
anno, quindi poco più di 26 in una settimana.
Il sindacato dei metalmeccanici tedesco, Ig Metall, ha lanciato il dibattito sulla riduzione d’orario,
soprattutto in un settore, quello automobilistico, che in Germania conta diverse centinaia di migliaia di
lavoratori.
“Per evitare licenziamenti dobbiamo far lavorare tutti, ma meno”, ha detto il numero uno del sindacato
Jörg Hoffman, spiegando che il kurzarbeit, la settimana breve, sarebbe stata una giusta risposta alle
trasformazioni dell’intero settore.
Sono quindi maturi i tempi per rilanciare una battaglia nazionale ed europea per la riduzione d’orario a
parità di paga da parte del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici.
Tale battaglia deve essere scevra e sganciata dalle cosidette politiche o pratiche della flessibilità degli
orari, terreno questo già percorso dagli anni ’90 del secolo scorso, ma che ha signifcato aumentare la
precarietà all’interno del mondo del lavoro, con una pletrora di forme occasionali e parziali di contratti
lavorativi, che hanno reso debole e ricattabile il movimento dei lavoratorri riportandolo a condizioni
normative e salariali sempre più simili al primo capitalismo ottocentesco, dove garanzie occupazionali,
salariali e previdenziali erano per lo più assenti.
La rigidità degli orari, così come dell’utilizzo della manodopera deve essere rivendicata come una prassi
e un valore necessario e sufficiente affinchè le condizioni di salute e di socialità dei lavoratori e delle
lavoratrici siano tutelate e non alla mercè dell’esigenze di profitto individuale e del mercato.
Possiamo e dobbiamo rivendicare una settimana lavorativa di 30 ore su 5 giorni e attraverso l’unificazione
del fronte lavorativo con i sui alleati storici, le nuove generazioni e le donne, rivendicare maggiori salari.
Per ribaltare gli attuali rapporti di forza complessivi fra le classi, rilanciando la solidarietà e
l’internazionalismo proletario è questa la battaglia di respiro europeo decisiva che il movimento operaio e
i lavoratori devono impostare.
Su queste parole d’ordine sarà il nostro impegno all’interno della lotta di classe in atto.