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Accordo del 2 Dicembre ratifica la debolezza del sindacato

L’accordo firmato il 2 dicembre 2020 in materia di servizi pubblici essenziali tra i così detti “sindacati
maggiormente rappresentativi” (CGIL – CISL – UIL – SNALS – GILDA – ANIEF) del comparto Scuola,
Università, Ricerca, Alta formazione artistica e musicale (A. F. A. M.) e l’ARAN, l’Agenzia per la rappresentanza
negoziale nelle pubbliche amministrazioni, è nei contesti della fase attuale, particolarmente significativo.
L’accordo in questione “attua le disposizioni della legge 146 del 12 giugno 1990 in materia di servizi
pubblici essenziali” in un comparto che contava, al 2019, 127 sigle sindacali e che risultava quindi, e risulta a
tutt’oggi, notevolmente frastagliato.
Le sei OO. SS firmatarie dell’accordo si fanno quindi garanti della precisazione e dell’applicazione di una
serie di norme già previste dalla legge e che, d’ora in poi, avranno piena operatività nell’intero comparto Scuola,
Università, Ricerca e A. F. A. M.
L’accordo individua i periodi nei quali non potranno essere indetti scioperi (1°al 5 settembre e nei 3 giorni
successivi alla ripresa delle attività didattiche dopo la pausa natalizia o pasquale);
per i docenti si individuano i limiti per la partecipazione agli scioperi (40 ore annuali pro-capite nelle scuole
dell’infanzia e primarie, che divengono 60 nelle scuole secondarie).
Significativo il seguente passo dell’accordo:
“in occasione di ogni sciopero, i dirigenti scolastici invitano in forma scritta….. il personale a comunicare entro il
quarto giorno dalla comunicazione della proclamazione dello sciopero, la propria intenzione di aderire allo
sciopero o di non aderirvi o di non aver ancora maturato alcuna decisione al riguardo…”
Se le norme erano già operative per legge una loro ulteriore precisazione a livello di comparto, stilata in termini di
accordo, dimostra il permanere di quello zelo concertativo e burocratico che tende a disciplinare le lavoratrici e i
lavoratori in vista di ogni mobilitazione anche eventuale al fine di scongiurarla.
D’altronde la legge 146/90 passò alla storia come “legge antisciopero”, proprio perché nacque in un contesto aspro
dello scontro di classe nel nostro paese laddove, quando e per la prima volta “la classe operaia prova a contrastare
il padronato sulla ristrutturazione aziendale la lotta si conclude con una grossa sconfitta (FIAT, autunno 1980) che
da la misura della distanza fra direzione sindacale e reale situazione di fabbrica”, quale eredità concreta della
svolta concertativa (e corporativa) dell’EUR maturata nel 1978 dai vertici di CGIL – CISL – UIL.
Con tale svolta le OO. SS. confederali garantivano la moderazione delle richieste sindacali (compatibilità)
per rilanciare l’economia nazionale e porre le basi per un ipotizzato futuro di riforme, garantito proprio dal rilancio
imperialista dell’Italia sui mercati internazionali.
In realtà una simile politica concertativa avrebbe indebolito le lotte delle lavoratrici e dei lavoratori e
l’organizzazione sindacale nei luoghi di lavoro e sui territori, agevolando i processi di ristrutturazione industriale.
Ne sarebbe seguita un’offensiva contro l’intero mondo del lavoro che, aggredendo l’occupazione, il salario,
i diritti e le condizioni di vita delle classi subalterne, avrebbe progressivamente ridisegnato l’intera società
aumentando la miseria, l’emarginazione e le disuguaglianze sociali.
Giova ripercorrere brevemente le fasi di questo conflitto.
L’accordo sul costo del lavoro del gennaio del 1983 e il successivo decreto del febbraio del 1984 noto come
“accordo di S. Valentino” che stabilì la sterilizzazione di tre punti di contingenza, sono accolti dalle lavoratrici e
dai lavoratori con grande disappunto che si concretizza in scioperi spontanei e nella costituzione di coordinamenti
efficacemente radicati nelle realtà produttive (autoconvocati) che sfuggono al controllo delle burocrazie
confederali, dando vita a una elaborazione collettiva delle piattaforme e a una gestione dal basso delle lotte e delle
mobilitazioni.
I vertici della CGIL sono molto preoccupati e, per evitare di essere scavalcati ma, soprattutto, per avviare il
recupero di questa risposta di classe che sconfessa la linea concertativa dei vertici confederali, decidono di non
firmare l’accordo che prevede la sterilizzazione dei punti di contingenza.
Lo sviluppo ulteriore del conflitto non avverrà purtroppo sul piano della risposta unitaria ma sul piano del
recupero istituzionale, a riprova della complessiva fragilità del movimento di opposizione: i vertici della CGIL,
sostenuti dal Partito Comunista Italiano (PCI), indicono un referendum contro l’accordo di S. Valentino. Il
referendum si tiene nell’ottobre del 1984 e, a fronte di una elevata partecipazione (77,85%), la maggioranza dei
voti (54,32%) conferma l’accordo.
Così è che il referendum si trasforma in una bruciante sconfitta per la CGIL ma, soprattutto, per l’intero
movimento di opposizione e per le sue prospettive di resistenza.
Dopo aver indebolito l’intero movimento sindacale fiaccandone le istanze autonome e di lotta; dopo aver
incassato importanti vittorie e vantaggiosi accordi, il padronato passa a sferrare un attacco più generalizzato anche

alle altre consistenti realtà del lavoro pubblico, con particolare riferimento ai settori più numerosi e combattivi quali
sanità, scuola e trasporti.
Anche in questi importanti comparti, all’epoca appartenenti in larghissima misura alla Pubblica
Amministrazione, la combattività era elevata così come il loro potere contrattuale.
La scuola era importante e combattiva, ma nell’ambito della ristrutturazione padronale complessiva che,
come si è visto, dal privato muoveva a investire anche il pubblico, non assumeva in quella fase specifica un ruolo
prioritario, se con questo aggettivo si intende non tanto l’importanza sociale che un determinato settore lavorativo
svolge nella società, quanto l’importanza che rappresenta rispetto alle logiche di profitto che all’epoca si
concretavano negli incipienti processi di privatizzazione prioritariamente rivolti alla sanità e ai trasporti. La scuola
poteva quindi aspettare: sarebbe venuta dopo, così come d’altronde è stato.
Ma per chiarire i contesti nei quali queste lotte settoriali si svilupparono e gli interessi che si trovarono a
fronteggiare c’è da dire che vi era, per la sanità, la già operativa legge 833/78 che istituiva il Servizio Sanitario
Nazionale, alla quale sarebbe seguita la legge delega n. 421/92 che avrebbe definitivamente istituito le logiche
manageriali e di profitto proprie del settore privato.
Anche i trasporti sono investiti da questi processi di ristrutturazione: con la legge 210/85 si procede alla
privatizzazione delle Ferrovie dello stato che divengono così “Ente Ferrovie dello stato”, avviando così il processo
di privatizzazione per questo importante comparto pubblico.
E’ significativo che fu proprio la FILT – CGIL a reclamare la privatizzazione, sostenendola addirittura con
una raccolta di firme che ebbe, per altro una non sottovalutabile fortuna tra le lavoratrici e i lavoratori delle
ferrovie.
In un simile contesto il ruolo delle OO. SS. evolve: da quello regolatore delle lotte per renderle compatibili
alle dinamiche aziendali, si passa al tentativo di porsi come referente responsabile del mondo del lavoro dell’epoca,
proprio perché vi era anche la prospettiva di partecipare in un ruolo concertativo ai massicci processi di
privatizzazione dei servizi che si apprestavano a investire la Pubblica Amministrazione, rispetto ai quali la CGIL
non può dirsi estranea, come CISL e UIL, d’altronde.
Ci trovavamo comunque di fronte a importanti mobilitazioni di categoria e a tentativi di costruire
rappresentanze dal basso, che si ponevano quale punto di riferimento organizzativo per la conduzione delle lotte
che imponevano “il mandato a trattare”, espropriando i vertici sindacali di un’arma molto importante: la gestione
delle trattative.
Ma le mobilitazioni non riescono scongiurare un grave limite che inizia a prospettarsi: in tutto il movimento
di opposizione viene meno la capacità di unificare le lotte oltre le categorie, in un’unica grande vertenza unitaria su
obiettivi comuni che riunifichi il lavoro privato e pubblico, al fine di contrastare i processi di ristrutturazione e il
ruolo concertativo e subalterno dei vertici sindacali confederali.
Da questa articolata vicenda del conflitto tra capitale e lavoro che vide l’affermarsi della ristrutturazione
capitalistica non ostante una significativa opposizione di classe comunque declinante proprio perché divisa, nasce
l’esigenza di contenere il conflitto regolando gli scioperi per legge.
Viene quindi varata, per altro fortemente voluta dai vertici di CGIL – CISL – UIL la legge 146/1990,
giustamente definita “Legge antisciopero”.
Le OO. SS. confederali e il padronato raggiungono quindi un compromesso cementato dalla necessità,
comune a entrambi gli schieramenti, di limitare e scoraggiare il conflitto sociale per non turbare le dinamiche
concertative che erano ormai state impostate, al fine di avviare il controllo del conflitto in fabbrica e negli ambiti
della Pubblica Amministrazione, ormai investita dai massicci processi di ristrutturazione.
Le successive vicende che ci riconducono all’oggi confermano la vecchia ma attualissima verità che senza
conflitto non vi è alcun progresso sociale, ma il declino dell’orgnizzazione sindacale e il regresso delle condizioni
di vita delle classi subalterne.
Con l’accordo del 2 dicembre u. s. in materia di servizi pubblici essenziali, si replicano infatti le medesime
pratiche di trenta anni or sono, volte a controllare per legge il conflitto sociale nella speranza di recuperare un ruolo
concertativo ormai contraddetto dall’aggressività delle regie padronali.
Ma se tutto questo è vero sorge conseguentemente una domanda:
Ma se sono chiare le intenzioni padronali e governative di contenere il conflitto di classe in tutta la società;
se sono chiare anche le responsabilità delle OO. SS. confederali che continuano a scambiare il diritto di sciopero
con il tentativo di rilanciare la concertazione, sorge allora una domanda:
come è stato che dal 1990 la regolazione degli scioperi per legge ha obiettivamente funzionato e non è stata
infranta, cancellata o significativamente contraddetta dalla mobilitazione delle lavoratrici e dai lavoratori dei servizi
e dei settori interessati, al punto che è stata definitivamente precisata nel comparto Scuola, Università, Ricerca e A.
F. A. M. con il recente accordo del 2 dicembre u. s.?
Per restare nel concreto dobbiamo ammettere con obiettività che l’opposizione interna alla CGIL in tutte le
sue transizioni e componenti si è dimostrata debole e esitante, anche nelle sue migliori stagioni, nell’affrontare
l’importante questione dello sciopero nei servizi pubblici omettendo di calarsi nel contrasto, storicamente presente
in CGIL, tra le categorie del settore privato e quelle del settore pubblico che risultano storicamente e

drammaticamente divise subendo, nei fatti, tutte le negative conseguenze dell’applicazione della regolamentazione
dello sciopero per legge, dalla 146/90 in poi.
E una considerazione critica vale anche per il variegato e rissoso panorama del sindacalismo di base che ha
proceduto al riguardo con logiche autoreferenziali che non hanno assolutamente inciso sulla realtà.
Il problema risiede nei metodi di lotta, per come sono stati gestiti e praticati in qualità e quantità, dalla
CGIL e dalle OO. SS. di base, perché questi metodi di lotta sono aggrediti proprio quando le mobilitazioni
declinano e si prospetta la sconfitta.
Non è quindi necessario lambiccarci il cervello alla ricerca di metodi alternativi allo sciopero, ma
riconoscere una verità generalmente rimossa: troppi scioperi fino ad oggi indetti non sono riusciti, o hanno avuto
adesioni modeste e comunque non all’altezza delle necessità dell’offensiva padronale;
che tutto questo scioperismo ha prodotto insuccessi che sono stati replicati dagli apparati sindacali
confederali e di base sia pure per perseguire ruoli e obiettivi sindacali diversi, ma che comunque hanno in comune
le logiche autoreferenziali dei rispettivi gruppi dirigenti;
che questa pratica ha ormai stancato le lavoratrici e i lavoratori e contribuito a scatenare “i cittadini” contro
il settore pubblico minando ulteriormente l’unità delle lotte, quando è proprio questa divisione che alimenta la
sconfitta.
Se da una parte potrà anche darsi che le norme antisciopero indotte da leggi o accordi realizzati con
procedure blindate e autoritarie debbano essere forzate con una consapevole azione di massa è anche vero,
dall’altra, che questa azione per ora non esiste e che deve essere impostata.
E’ quindi assolutamente prioritario iniziare a costruire una vertenza basata su due obiettivi in grado di unire
il lavoro, il non lavoro e il lavoro povero e precario; il lavoro pubblico con quello privato; le generazioni anziane
con quelle più giovani e includendo la forza lavoro immigrata, il tutto nell’ampia cornice delle implicazioni di
genere:
– -riduzione dell’orario di lavoro a parità di paga;
-consistenti aumenti salariali da distribuire con logiche egualitarie.
L’alternativa agli scioperi autoreferenziali è una grande vertenza unitaria per la difesa delle condizioni di
vita delle classi subalterne la quale, affermandosi, neutralizza anche ogni intento di limitazione del conflitto.