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Coronavirus e rivolte

La pandemia in questi lunghi mesi ha messo a nudo molte fragilità della nostra società. Al di là del rapporto generale dell’uomo con la natura che è la base di tutti i mali che oggi ci troviamo ad affrontare, il coronavirus ha mostrato tutti i limiti di una organizzazione sociale ed economica che da oltre quaranta anni viene narrata come l’apice insuperabile dello sviluppo umano. Non è casuale che alla fine del secolo scorso da parte di ideologi   del sistema capitalista si è parlato di fine della storia, a significare che l’approdo ai regimi liberal-democratici segnassero il punto di arrivo invalicabile dell’evoluzione sociale ed economica delle nostre società.   La pandemia ci mostra come queste certezze si sgretolano sotto il peso dei fatti materiali. La sanità e l’istruzione in questo sono l’apice di un iceberg che si liquefa alla stessa stregua dei ghiacciai dell’Antartide. Decenni di tagli al sociale hanno determinato una incapacità di difesa dall’epidemia che sta falcidiando migliaia di vite, ben al di sopra di altre nazioni, e che ad oggi non sembra sedimentare una presa di coscienza della gravità della situazione. A fronte di questa contingenza “di fine del mondo a pezzettini” come l’ha definita con immagine forte un uomo di chiesa, (perché ogni vita che si spegne è un mondo intero che scompare) la società non sembra in grado di far fronte alle mille emergenze che faticano ad emergere. Dagli anziani che assurgono a fenomeno mediatico, per le morti nelle RSA, ma che continuano a non trovare risposte adeguate tali da sottrarli all’abbandono o alla “reclusione”; alle varie sintomatologie del disagio psichico e mentale; e alla condizione di coloro che sono stati semplicemente cancellati come gli oltre  54.868 detenuti delle carceri italiane.  Le rivolte dei detenuti nelle giornate del 7 e 8 marzo squarciarono  il velo di silenzio che avvolge questa “istituzione totale”, ma l’attenzione mediatica si è subito spenta sotto il peso del decesso dei 14 detenuti. Per dare voce a chi la legge gliela  toglie abbiamo chiesto un contributo a Carmelo Musumeci che quella realtà l’ha vissuta sulla propria pelle.

Carmelo Musumeci ha accettato la nostra proposta di collaborare con “il Cantiere” e  non    poteva essere la voce più adatta per raccontarci il mondo del carcere. Un luogo che lui ha vissuto per ventotto anni. Condannato all’ergastolo ostativo, quello che prevede il “fine pena  mai”, caso forse più unico che raro riesce a riconquistare la libertà nel 2018. Nel carcere, Carmelo vi entra nel 1991 con la licenza elementare, si diploma da autodidatta e consegue poi tre lauree: nel 2005 in Giurisprudenza con una tesi in Sociologia del diritto dal titolo “Vivere l’ergastolo”, nel 2011 in Diritto Penitenziario con una tesi dal titolo “La ‘pena di morte viva’: ergastolo ostativo e profili di costituzionalità” e nel 2016 in Filosofia con 110 e lode discutendo la tesi “Biografie devianti”.

Ad un primo esame  un osservatore superficiale potrebbe ricavarne l’idea che il carcere ha avuto un ruolo positivo su Carmelo, entrato in carcere da criminale incallito, con pesanti  reati da scontare, e ne esce uomo ravveduto e colto. Tutto ciò scompare, però, non appena si leggono le pagine dei suoi scritti in cui la dura realtà della reclusione ed in particolare di quella condizione particolare in cui vivono i  1673 detenuti condannati al carcere perpetuo, trasudano dolore e disperazione. La realtà dei “morti viventi” così sono gli ergastolani, anziché favorire e sviluppare una rivisitazione dei propri comportamenti tesi ad una presa di coscienza dei propri errori,  opera una sorta di auto assoluzione.   Carmelo dice che il male fatto in qualche modo passa in secondo piano a fronte del male che si subisce con una pena che non dà prospettiva.  “una pena cattiva non migliora, ma anzi, in molti casi, peggiora la situazione”.  Il cambiamento, allora, avviene non grazie al carcere, ma nonostante il carcere.

“Se non hanno più pane, che mangino brioches.” Così sembra abbia risposto la regina Maria Antonietta ai tempi della Rivoluzione francese, alla notizia che il popolo affamato si stava rivoltando.

Ancora si sa poco dei morti durante le rivolte in carcere di questi giorni, persino il numero dei morti è incerto. Si sa però che è molto più facile per le forze dell’ordine sedare le manifestazioni in carcere che non fuori nelle piazze o nelle strade, perché “dentro” nessuno ti vede, non ci sono testimoni scomodi e per i rivoltosi non è per nulla facile scappare o allontanarsi. Se con i manifestanti al G8 di Genova del 2001 non è stato facile e hanno dovuto reprimerli davanti agli occhi di tutto il mondo, in carcere non ci sono occhi che vedono. A parte qualche giornalista che fa eccezione, sembra che ai mass media non interessi come e perché questi detenuti sono morti, perché sono stati trasferiti moribondi in altri carceri (invece di portarli all’ospedale). Penso che a queste domande non avremo mai risposta, perché molti di loro non hanno una meravigliosa sorella come quella che ha avuto Stefano Cucchi, che ha lottato con tutte le sue forze per scoprire cosa era accaduto a suo fratello.

Per confondere l’opinione pubblica e giustificare l’incapacità del sistema carcerario di gestire l’emergenza, si sta facendo circolare la voce che dietro le rivolte ci sia stata la regia dalla mafia, dimenticando di dire che mai queste organizzazioni hanno partecipato a delle rivolte carcerarie e che, anzi, le hanno sempre ostacolate. Dietro queste rivolte non c’è la mafia, c’è piuttosto lo Stato che si era dimenticato dei suoi prigionieri, abbandonandoli al loro destino, alla disperazione, e la paura ha fatto tutto il resto. È stata solo una rivolta spontanea. Niente altro. Ma voi che avreste fatto? Avreste protestato pacificamente? In carcere non è facile farlo e molti detenuti non hanno gli strumenti per gestire una protesta pacifica. Non è mia intenzione sdoganare la violenza, ma cerco solo di capire perché e da dove viene, e soprattutto chi la provoca.

Quando sento che i reparti mobili antisommossa entrano per ristabilire l’ordine mi vengono in mente brutti ricordi, purtroppo dentro non ci sono giornalisti, telefonini e telecamere a testimoniare quello che accade quando succedono questi fatti. Ecco perché ho sempre scritto dei diari dal carcere:

“Il direttore e il commissario del carcere avevano deciso di agire e di trasferire i promotori della protesta e si rivolsero alla squadretta. Era una giornata fredda e nuvolosa. Neppure il tempo prometteva nulla di buono. Le guardie piombarono in sezione qualche ora prima dell’alba. Il corridoio era silenzioso e cupo. Ad un tratto dalle prime celle si sentì un grido d’allarme di un detenuto: “Arrivano”. E subito dopo si sentirono urla e insulti per tutto il carcere. Le guardie incominciarono con i detenuti delle prime celle, a rompere nasi e denti, imbrattando di sangue le mura delle loro stanze. I detenuti più deboli, i tossicodipendenti e gli anziani si rannicchiarono negli angoli delle loro celle a piangere e a singhiozzare. Io, per attutire i colpi delle manganellate, che di sicuro mi sarebbero arrivati, mi ero messo addosso tre pigiami, due paia di pantaloni e diverse maglie e maglioni, con sopra due tute, e avevo indossato le scarpe più pesanti, ma le presi lo stesso di santa ragione.”

“Nel 1992 ero arrivato all’isola dell’Asinara con l’elicottero dei carabinieri. Appena sceso mi presero in consegna le guardie. Subito dopo mi scaraventarono in una gabbia allestita provvisoriamente al centro del capo sportivo, davanti alla famigerata sezione Fornelli. Eravamo schiacciati come sardine. Ad un tratto le guardie si schierarono a destra e a sinistra. Lasciarono libero un corridoio nel mezzo che portava dritto dentro il carcere. Le guardie avevano scudi in plexiglass e manganelli nelle mani.  Immaginai subito cosa sarebbe successo. Lanciai un’occhiata al percorso che dovevano fare. E subito pensai che sarebbe stato difficile non prendere qualche manganellata in testa. I primi detenuti uscirono. Furono subito bersagliati di manganellate.

Io correvo piegato in due con le braccia alzate per cercare di ripararmi dai colpi di manganello. Ma non servì a molto. Toccò a me. Cercavo di proteggermi la testa, ma le manganellate arrivarono proprio lì.”

 

“Le guardie arrivarono a decine. Mi presero di peso e mi trascinarono nelle celle di punizione. Mi scaraventarono nella cella liscia. Volarono pugni e calci e ingiurie. Mi denudarono. Mi perquisirono. Le guardie ribollivano di rabbia. Iniziarono a insultarmi: “Figlio di puttana. Prendi questo e quest’altro”. Poi si stancarono e se ne andarono. Mi sdraiai per terra, nella cella liscia non c’era neppure la branda. Mi coprii con una vecchia coperta buttata in un angolo, l’unica cosa che c’era in quella cella. Rimasi una mezzoretta con gli occhi fissi al soffitto. Sentivo dolore dappertutto. Mi faceva male la testa e avevo delle fitte ai fianchi, la parte del corpo che aveva preso più calci. Gli occhi mi si chiudevano dalla stanchezza, dalla rabbia e dal dolore. Non riuscivo a mettere ordine nei miei pensieri. Alla fine mi addormentai. Mi svegliarono i raggi del sole del mattino, che filtravano dalle sbarre della finestra. Avevo tutti i muscoli che mi facevano male, dappertutto. Mi sentivo frustrato. Avevo anche una spalla intorpidita e un braccio irrigidito. Richiusi gli occhi di nuovo, come per difendermi da quello che vedevo. Di giorno la cella liscia era ancora più brutta. Se conoscevo bene il carcere, e lo conoscevo bene, forse durante la giornata mi avrebbero impacchettato e trasferito in un carcere di punizione. Dopo le proteste, i detenuti non li tengono mai nello stesso carcere. Rimasi un po’ a fissare le pareti della cella, poi decisi di provare ad alzarmi. Raddrizzai le spalle e la schiena e mi alzai da terra. Barcollai. Fui sul punto di cadere. Mi sostenni appoggiando una mano sul muro. Proprio sul punto della parete dove mi ero appoggiato, vidi che c’era scritta una frase. Feci fatica a leggerla. Sembrava scritta con il sangue: “La mia anima cerca il cielo, il sole, il mare, mentre muoio per vivere”. Scrollai la testa, come per dimenticare quello che avevo letto. Ero triste già di mio e non volevo diventarlo ancor di più. Mi facevano ancora male tutte le costole dalle botte che aveva preso quella notte. Respiravo ancora con fatica. Pensai che altre botte mi aspettavano nel carcere dove mi avrebbero mandato. Quella notte c’erano andati “leggeri”, per paura che qualche giudice mi vedesse, se fosse venuto a interrogarmi per la protesta collettiva che io e i miei compagni avevamo fatto. Infatti, in faccia i bastardi non mi avevano toccato. Invece nel carcere dove mi avrebbero mandato le guardie non si sarebbero fermate al corpo, mi avrebbero spaccato anche la faccia. Come quella volta a Nuoro, che mi avevano fatto saltare due denti. Mi sedetti di nuovo per terra, con le gambe allungate e la schiena contro la parete, aspettando il mio destino.”