Alternativa Libertaria/FdCA
L’era di Draghi
Mario Draghi è certamente una figura “autorevole e utilissima”: proprio come lo è Stato Mario Monti e come lo fu Aurelio Ciampi del quale, per altro, può essere considerato l’allievo.
Oltre al teatrino della politica parlamentare dove, tra l’altro, i numerosi e accesi “anti renziani” di oggi sono proprio quelli che lo sostennero ieri, il fatto è che il Governo Conte non forniva sufficienti garanzie al capitale multinazionale per la gestione unilaterale dei Recovery Fund e quindi doveva essere superato da un esecutivo varato “sull’unità nazionale per la salvezza del paese” cucinato in salsa presidenziale, corporativa, patriottica e soprattutto unanime, dato che solo la componente più reazionaria e sovranista dello schieramento parlamentare, vale a dire “fratelli d’Italia”, si è tirata fuori sia pure con lacerazioni interne.
La linea “governatorale” propria dei partiti che compongono l’attuale maggioranza, si basa sia sulla necessità del ceto politico parassitario di occupare poltrone, sia sull’assunto qualunquistico di non lasciare alla sola destra la gestione delle politiche di governo: una posizione questa che potremmo definire “menopeggista”, che ha sempre prodotto non tanto il meno peggio ma soprattutto “il peggio senza il meno”.
Così è stato che le storiche e reiterate esternazioni antieuropee, anti euro, sovraniste e apertamente razziste della Lega, sono comicamente evaporate in un “espace du matin”, cedendo il posto a quell’uniformarsi all’imperialismo europeo, a suo tempo già intrapreso dai 5S e accelerato dalla pandemia Covid 19 e dal miraggio della gestione del Recovery Fund per un totale di 209 miliardi di euro dei quali Draghi è il garante che poi, alla fine, sono un prestito che dovrà essere restituito: ed è legittimo supporre che questa restituzione dovrà gravare sulle classi subalterne.
Anche le timide esternazioni riguardo a una patrimoniale (vedi il dettagliato articolo “Abbattere i pilastri dell’ideologia dominante” nel presente numero de “Il Cantiere”), sono state rapidamente accantonate, ed è significativo che a questo coro unanime di consensi si allinei anche Confindustria, che poi è la vera regista nazionale dell’operazione Draghi, perché da sempre “il potere è dietro al trono”: ma che unità nazionale sarebbe senza il sostegno attivo del Sindacalismo confederale?
La posizione del sindacalismo confederale
Infatti, senza perdere troppo tempo, CISL e UIL non hanno esitato a aprire il credito a Mario Draghi, e il 2 febbraio scorso anche il Segretario Generale della CGIL Maurizio Landini si è chiaramente ed eloquentemente espresso circa il ruolo di Mario Draghi in un’intervista a La7 affermando: “E’ autorevole, può essere una persona utile”.
Affermazioni queste deliberatamente acritiche e del tutto fuori contesto circa il ruolo obiettivo di Mario Draghi; oltre alla fretta di essere parte integrante della nuova partita molto eventualmente concertativa, un gruppo dirigente sindacale che veramente intenda difendere gli interessi delle classi subalterne che rappresenta ha il dovere di porsi una domanda circa l’utilità di Mario Draghi: “ma per chi e per quale classe?”.
Oggi, come ieri d’altronde, i gruppi dirigenti confederali continuano consapevolmente a omettere l’unica risposta possibile: queste sono certamente figure autorevoli e utilissime, ma per il teatrino della politica, i cui interpreti sperano di rigenerarsi in un nuovo ruolo accresciuto dal miraggio del Recovery Fund; lo sono concretamente per la confindustria; per il capitale finanziario multinazionale anche italiano; per le banche, per l’imperialismo europeo che ancora non riesce a esprimere la maturità e l’unità necessarie per affrontare la pandemia e la competizione sui mercati internazionali; sono figure autorevoli e utilissime per continuare la politica delle privatizzazioni, già perseguite con efficienza proprio da Draghi fin dal 1992, non a danno del “patrimonio nazionale” che non esiste, ma a danno irreversibile delle condizioni materiali della nostra classe.
A questo serve Draghi, non ad altro
Le dichiarazioni dei gruppi dirigenti confederali non dovrebbero stupire perché sono la conseguenza inevitabile di una deriva concertativa che ha radici antiche e che ha sedimentato nei gruppi dirigenti una cultura corporativa che si manifesta in una tendenza alla semplificazione che contribuisce a far perdere il senso della realtà, della rappresentanza e, talvolta, anche quello della misura.
“Non è difficile calcolare l’entità della redistribuzione delle risorse dai salari ai profitti operata dal 1993 a oggi… il contributo offerto dalla quota del lavoro ai profitti nel quadro del protocollo del 1993… è stato davvero ingente… e ammonta a ben 1069 miliardi di euro.” (Leonello Tronti in “Rassegna Sindacale” n. 38/2013).
“Rassegna Sindacale” (storica testata della CGIL nata nel 1955, oggi la testata multimediale “Collettiva” ha raccolto la sua eredità) con la naturalezza derivante dall’omissione continuata evita di considerare che:
“Il protocollo del 1993” altro non era che il “PROTOCOLLO 23 LUGLIO 1993 TRA GOVERNO E PARTI SOCIALI – POLITICA DEI REDDITI E DELL’OCCUPAZIONE, ASSETTI CONTRATTUALI, POLITICHE DEL LAVORO E SOSTEGNO AL SISTEMA PRODUTTIVO”; il primo ministro del governo era Aurelio Ciampi (suo collaboratore dell’epoca Mario Draghi); che anche in quell’occasione i gruppi dirigenti di CGIL-CISL-UIL, sostenendo alacremente l’accordo, si ridussero a svolgere il ruolo di pilastro del governo in carica confidando nel fatto che, superata la crisi con il determinante aiuto delle forze sindacali, queste avrebbero acquisito il ruolo di “salvatori del paese” avviando tramite la concertazione gentilmente concessa, una serie di riforme che, naturalmente non si verificarono nemmeno in quella occasione.
Anche in quell’occasione i gruppi dirigenti confederali andarono forsennatamente replicando quel “siamo tutti sulla medesima barca”, già declinato nel 1978 e ripreso con solennità dall’allora segretario generale della CGIL Luciano Lama all’epoca “della svolta dell’EUR”, e che intese moderare le richieste sindacali specialmente in materia salariale per consentire la ripresa dell’economia italiana. Il che significava, per dirla con un concetto appropriato e non omissivo, un aiuto al debole imperialismo italiano a reggere la competizione sui mercati internazionali con le altre potenze economiche contro gli interessi immediati e storici della nostra classe, dal momento che solo quest’ultima avrebbe pagato i costi di questo gigantesco spostamento di risorse dai salari ai profitti e alle rendite, così come è d’altronde avvenuto ed è il caso di ricordare che, anche in quell’occasione, riforme e investimenti proprio non sarebbero arrivati.
Ecco perché il sindacalismo confederale non può certo dirsi estraneo alle premesse che, in oltre quaranta anni, hanno agevolato il crescere e l’affermarsi dell’attuale aggressione alle condizioni di vita delle classi subalterne.
Crisi economica e pandemia nel contesto dell’imperialismo europeo
Il ceto politico e i gruppi dirigenti del sindacalismo confederale, consapevolmente omettendo ogni ombra di autocritica replicano oggi il medesimo schema di analisi del 1978 e del 1993.
Ne consegue un’inevitabile subalternità al quadro economico politico e istituzionale nazionale e il medesimo sostegno all’imperialismo europeo: in un simile contesto le conseguenze di questa strategia tesa a scoraggiare l’unità di classe e a smobilitare le lotte potranno essere anche molto peggiori di quanto lo siano state in passato.
La forza dell’attuale governo, oltre il teatrino della politica parlamentare delle sue comparse e caricature, risiede proprio nella figura di Mario Draghi che è e sarà il garante di quel processo di ristrutturazione globale che si dispiegherà in Italia nei prossimi anni secondo le linee impartite dall’imperialismo europeo, con proiezioni certe sulla nostra classe, già pesantemente aggredita e indebolita da una devastante crisi economica ultra decennale alla quale si sono aggiunti gli effetti della pandemia definendo uno scenario allarmante.
I primi effetti di questa prospettiva già si riconoscono nell’assoluta indisponibilità da parte dell’Unione Europea nel far fronte alle necessità circa le dosi del vaccino abolendo il brevetto posseduto da poche multinazionali al fine di ottenere maggiori quantità di prodotto a prezzi inferiori con immediati benefici per le classi subalterne in Europa, anche in considerazione che la ricerca delle imprese private multinazionali ha usufruito di ingenti finanziamenti pubblici.
La fase è evidentemente caratterizzata da un rapporto di forza sfavorevole alla nostra classe, rafforzato com’è dalla necessità di avviare una ristrutturazione su modello dell’Unione Europea anche in Italia: una ragione in più per non uniformarsi alle tendenze corporative del parlamentarismo e rilanciare l’opposizione unitaria internazionalista.
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