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Contro il governo Draghi

Alternativa Libertaria/FdCA

Il fondo finanziario Melrose ha confermato il procedimento di licenziamento dei lavoratori della GKN di Campi Bisenzio.

L’ennesimo incontro svoltosi al Mise (Ministero dello Sviluppo Economico) il 2 dicembre scorso ha per ora rimandato di 15 giorni il procedimento di licenziamento nell’attesa di valutare le proposte di reindustrializzazione, annunciate dall’advisor incaricato da GKN, Francesco Borgomeo. Si stanno valutando manifestazioni di interesse all’acquisizione da parte di due diverse aziende, che però non si occupano di automotive: una produce macchinari per l’industria farmaceutica, l’altra produce componenti per energie rinnovabili.

La vice ministra Todde ha confermato il sostegno del progetto da parte di Invitalia nel momento della definizione del soggetto industriale che rilancerà lo stabilimento. E’ questo al momento lo stato dell’arte relativa alla vertenza GKN. Nel frattempo, il numero degli operai effettivi da ricollocare è calato a 390 e non più 422, a parte l’indotto. La battaglia che fin dai primi giorni del luglio scorso i lavoratori e le lavoratrici della GKN hanno intrapreso, non è riuscita, fino ad oggi, a diventare obiettivo comune di un fronte sindacale e politico nazionale, nonostante la grande capacità di mobilitazione e di unità interna dimostrata dai lavoratori e dalle lavoratrici e dal Collettivo di Fabbrica della GKN. La responsabilità, a nostro avviso, risiede in una dirigenza sindacale subalternità al quadro economico e politico e in una prassi concertativa che privilegia l’interesse nazionale a scapito della difesa dei reali interessi delle classi lavoratrici. A tal riguardo, il tentativo fatto dal Collettivo di Fabbrica di mettere all’ordine del giorno del di battito parlamentare la proposta di legge sulle delocalizzazioni, elaborata e proposta dall’assemblea generale GKN con l’ausilio di giuslavoristi democratici, non è stata minimamente presa in considerazione nel dibattito governativo, così come è venuta meno l’ipotesi, che pure ha circolato successivamente alle giornate di luglio, di una possibile autogestione della fabbrica da parte delle lavoratrici e dei lavoratori

Se un simile obiettivo è assolutamente compatibile per mantenere attivo il sito produttivo, garantendo così l’occupazione e il salario per le lavoratrici e i lavoratori, è essenziale che le militanti e i militanti sindacali assumano la consapevolezza che la gestione di una qualsivoglia attività produttiva si deve inevitabilmente misurare con le leggi di mercato vigenti nella società capitalistica (approvvigionamento delle materie prime, reperimento dei finanziamenti, distribuzione e la vendita dei prodotti, dipendendo così da altri settori produttivi, finanziari, merceologici e distributivi e quindi da altrettante strutture capitalistiche), entrando inevitabilmente in concorrenza con altre realtà produttive. Le vicende di altri siti industriali in cui si è tentato un percorso di “autogestione” confermano la caducità di tale percorso a partire dalla autogestione tentata e fallita dai Cantieri Navali “Luigi Orlando” di Livorno. La prassi dell’autogestione si può affermare solo in maniera generalizzata e vincente in un’altra società, quella comunista libertaria che dobbiamo ancora costruire.

Ugualmente la prospettiva della nazionalizzazione, obiettivo indicato dal Collettivo di Fabbrica GKN nell’ambito di un piano complessivo di costruzione di un polo pubblico di mobilità sostenibile e rilanciato anche da settori politici e sindacali radicali, appare obiettivamente difficoltosa.

Certamente può costituire uno strumento di maggiore garanzia per alcuni ambiti produttivi e manifatturieri rispetto al padronato privato, ma non mette certo a riparo i lavoratori e le lavoratrici dalla competizione che il sistema economico produttivo capitalistico presuppone. Nella nostra economia nazionale, per tutti gli anni ’60 e fino ai primi anni ’90 del secolo scorso, abbiamo assistito alla nazionalizzazione di ampi settori merceologici e intere filiere produttive: dalla siderurgia, alla cantieristica, all’energia e ai servizi essenziali per finire ai trasporti. Con il passare del tempo però, si è assistito al progressivo peggioramento delle condizioni lavorative e sociali delle masse lavoratrici coinvolte in questi processi, tramite forti riduzioni di personale, peggioramento delle condizioni normative e salariali attraverso ampi processi di privatizzazioni. Questi settori precedentemente nazionalizzati sono stati resi omogenei ai siti produttivi privati il che ha comportato, per molti, la loro chiusura totale. Inoltre l’attuale composizione complessiva della struttura economica italiana rende l’obiettivo delle nazionalizzazioni difficilmente praticabile.

La composizione odierna del sistema produttivo vede in Italia una prevalenza delle piccole e medie imprese: quelle con un numero di dipendenti al di sotto delle 50 unità, sono complessivamente oltre il 95% delle oltre 4 milioni di imprese esistenti. Di contro, solo lo 0,09% delle imprese italiane supera i 250 addetti.

Anche la distribuzione degli occupati tra i diversi comparti riflette la distribuzione dimensionale di imprese, con una maggior quota di occupati nelle fasce di imprese più piccole. In Italia, le imprese sotto ai 10 addetti comprendono infatti il 45% degli occupati che, assieme agli occupati delle piccole e medie imprese (PMI), quelle che hanno da 10 a 50 addetti e occupano il 21% del totale mercato, corrispondono ad una forza lavoro complessiva del 61%, mentre per le grandi imprese, la forza lavoro impiegata è solo il 21% del totale.

Per dare concrete possibilità occupazionali ai lavoratori e lavoratrici espulsi dai processi produttivi a seguito del dumping salariale o dall’introduzione delle nuove tecnologie informatiche; per prospettare alle nuove generazioni ed alle donne percorsi possibili di stabilità lavorativa ed economica, fuori dalla precarietà e dalla discriminazione di genere propria dell’attuale mercato del lavoro, è necessario riprendere e generalizzare in tutti i comparti produttivi, in Italia e in Europa, la battaglia economica per maggiori salari e per una forte e consistente riduzione d’orario a parità di retribuzione, ed una battaglia politica contro il governo di unità nazionale . La stessa manovra fiscale annunciata, conferma l’indirizzo politico del governo Draghi e delle forze politiche che lo appoggiano.

La fascia che otterrà maggiori benefici sarà quella tra i 50 mila e 55 mila euro di reddito e non certo la stragrande maggioranza dei lavoratori e lavoratrici che si situano al di sotto delle 25mila euro lordi annuo (vedi nelle pagine successive articolo della CML “Una battaglia unitaria di tutte le categorie per un salario dignitoso e sufficiente per vivere”). Nello specifico i presunti benefici annui saranno 61 euro per i redditi fino a 15 mila euro, 150 euro per quelli tra i 15mila e 28 mila euro, 417 euro per quelli tra 28mila e 50mila euro, 692 euro per quelli tra50 mila ed i 55mila euro, 468 euro per quelli tra 55 mila e 75mila euro e 247 euro per quelli oltre i 75- mila euro.

Per non parlare della vergognosa riproposizione delle legge Fornero sulle pensioni, di fatto confermata e del nulla presente riguardo la concreta possibilità per le nuove generazioni di un lavoro non più precario e sottopagato. Del resto l’attuale Presidente del Consiglio, Mario Draghi, è stato l’ideatore e l’estensore di quella vera e propria controriforma, nella famosa lettera “segreta” spedita il 5 agosto del 2011 al governo italiano. Fu un vero e proprio indirizzo programmatico attuato poi, anche in quell’occasione, da un governo di unità nazionale con a capo il Presidente del Consiglio Mario Monti. In quel diktat si indicava: “più severi criteri per ottenere le pensioni di anzianità e di allungare l’età pensionabile delle donne nel settore privato in modo da avere risparmi di bilancio già nel 2012 ..e ridurre significativamente il costo degli impiegati pubblici, rafforzando le regole sul turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi”. Per la crescita, si indicava inoltre “la piena liberalizzazione” degli ordini professionali e dei servizi pubblici locali, prevedendone la “privatizzazione su larga scala”…ed un “serio impegno” per abolire o consolidare alcuni livelli amministrativi intermedi, “come le Province”. Buona parte di questo programma è stato ampiamente attuato ed l’attuale inquilino di Palazzo Chigi si muove ancora su queste direttrici con ancora l’avallo dei partiti di centrosinistra passando per i 5 Stelle fino a Forza Italia. Lo sciopero del 16 dicembre proclamato dalla CGIL e dalla UIL, senza l’adesione della CISL, è un segnale positivo per iniziare a unificare le migliori forze di opposizione della nostra classe, ma contemporaneamente appare tardivo e non esprime l’intenzione dei gruppi dirigenti di dar vita ad una battaglia generalizzata in difesa delle condizioni di lavoro e di vita delle classi subalterne.

Infatti il gruppo dirigente della CGIL, concedendo un’immediata apertura di credito all’attuale governo, si è deliberatamente reso subalterno all’attuale quadro economico e politico: in perfetto stile CISL la sua azione è divenuta tutta interna alla logica dell’unità nazionale e all’interesse del paese contemporaneamente subendo, con innumerevoli resistenze, esitazioni e incertezze, anche le mobilitazioni reali e la pressione dei pronunciamenti interni, quelli di molte Camere del Lavoro, di molti Direttivi provinciali e regionali, di gruppi dirigenti di intere categorie e numerose RSU che hanno espresso la volontà di mobilitazione per rispondere all’attacco padronale governativo nei confronti delle masse lavoratrici. Resistenze, esitazioni e incertezze che rimandano a precedenti tragici ma significativi, costituiti dallo sciopero contro la legge Fornero svoltosi il 12 dicembre del 2011, sciopero di sole tre ore ed a cui non seguì alcuna battaglia coerente e continuativa e quello successivo nel 2014, anch’esso svolto con l’assenza della CISL, contro il Jobs Act del governo Renzi. Resistenze esitazioni e incertezze che motivano anche la tardiva proclamazione dello sciopero del 16 dicembre: la confusione regna infatti sovrana, in quanto allo sciopero non prenderanno parte i lavoratori e le lavoratrici delle ferrovie, ma solo i trasporti locali e la sanità, a causa delle legge 146/1990 sulla regolamentazione diritto di sciopero nei servizi pubblici, mentre il settore dei porti ha già dichiarato una sciopero nazionale il giorno 17 dicembre e lo stesso comparto della scuola ha già indicato e confermato uno sciopero nazionale il 10 dicembre. L’offensiva padronale e governativa si concreta in una vera e propria offensiva e contro le nuove generazioni del lavoro, contro le donne e le componenti sociali più deboli e meno tutelate della società. Per battere questa offensiva è necessario costruire una grande vertenza unitaria e generalizzata per salari maggiori, per migliori pensioni e per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione per una maggiore occupazione.

Torniamo a vincere.

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