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L’Internazionale anarchica e la guerra Manifesto internazionale contro la guerra

Londra febbraio 1915

L’Europa è in fiamme; una dozzina di milioni di uomini sono impegnati nel più terribile macello che la storia ricordi; centinaia di milioni di donne e di bambini sono i n lacrime; la vita economica, intellettuale e morale di sette grandi popoli è brutalmente sospesa; e diviene ogni giorno più grave la minaccia che sorgano nuove complicazioni militari. Questo è il penoso, angoscioso, ed odioso spettacolo presentato dal mondo civile.
Ma uno spettacolo non inaspettato, per gli anarchici almeno. Poiché per gli anarchici non vi è mai stato, né vi è alcun dubbio dubbio (e gli orribili avvenimenti attuali rafforzano tale convinzione) che la guerra è in permanente gestazione nell’odierno sistema sociale. Il conflitto armato, ristretto o allargato, coloniale o europeo, è la conseguenza naturale, l’inevitabile e fatale risultato di un regime che si basa sulla disuguaglianza economica dei cittadini e sullo sfruttamento dei lavoratori; d’un regime che riposa sul selvaggio antagonismo degli interessi, e pone il mondo del Lavoro sotto la stretta e dolorosa dipendenza di una minoranza di parassiti che tengono nelle loro mani il potere politico ed economico.
La guerra era inevitabile. Da qualunque parte venisse, doveva scoppiare. Non invano, per mezzo secolo, si sono febbrilmente preparati i più formidabili armamenti e s’è aumentato incessantemente il bilancio della morte. Non è col costante perfezionamento delle armi da guerra e col rivolgere gli spiriti ed i desideri di tutti ad una sempre migliore organizzazione della macchina militare che si può lavorare per la pace.
Perciò è stolto ed infantile, dopo aver moltiplicato le cause e le occasioni del conflitto, voler fissare la responsabilità di questo o quel governo. Nessuna distinzione è possibile fra guerra offensiva e guerra difensiva. Nel presente conflitto, i governi di Berlino e Vienna han cercato di giustificarsi con documenti più o meno autentici, come quelli dei governi di Parigi, Londra e Pietrogrado. Ciascuno fa del suo meglio per produrre i più indiscutibili e decisivi documenti atti a stabilire la veridicità delle proprie asserzioni e per presentarsi quali immacolati difensori del diritto e della libertà e quali campioni di civiltà.
Civiltà? Chi dunque in questo momento la rappresenta? È forse lo Stato Tedesco col formidabile militarismo, e così potente che ha soffocato ogni capacità di rivolta? Forse lo Stato Russo pel quale il knout, la forca e la Siberia sono i soli mezzi di persuasione? Forse lo Stato Francese col suo Biribi (1), le sue sanguinose conquiste nel Tonchino, nel Madagascar e nel Marocco e col suo arruolamento forzato delle truppe nere? Forse questa Francia che detiene nelle sue prigioni, da anni, dei compagni colpevoli solo di aver scritto e parlato contro la guerra? È forse lo Stato Inglese che sfrutta, divide ed opprime le popolazioni del suo immenso impero coloniale?
No! Nessuno dei belligeranti ha il diritto d’invocare il nome della civiltà, come nessuno ha il diritto di difesa.
La verità è che la causa della guerra, la causa di quella attuale che bagna di sangue umano le terre d’Europa, come di tutte le guerre che l’hanno preceduta risiede unicamente nell’esistenza dello Stato, che è la forma politica del privilegio.
Lo stato è nato dalla forza militare; è attraverso l’uso di questa forza che si è sviluppato, ed è quindi sulla forza militare che logicamente deve riposare per mantenere la sua onnipotenza. Qualunque sia la forma che esso può assumere, lo Stato non è se non l’oppressione organizzata a beneficio delle minoranze privilegiate. Il presente conflitto illustra tutto ciò nella maniera più convincente.
Tutte le forme di Stato sono impegnate nella presente guerra: l’assolutismo con la Russia, l’assolutismo mitigato da istituzioni parlamentari colla Germania, lo Stato governante popoli di razze assai diverse con l’Austria, il regime costituzionale democratico con l’Inghilterra ed il regime repubblicano democratico con la Francia.
La disgrazia dei popoli, che pur erano tutti profondamente attaccati alla pace, è che, per evitare la guerra, riposero la loro fiducia nello Stato con i suoi diplomatici intriganti, nella democrazia e nei partiti politici, non esclusi quelli d’opposizione, come il partito socialista parlamentare. Questa fiducia è stata deliberatamente tradita e continua ad esserlo, quando i governi, con l’aiuto di tutta la loro stampa, danno ad intendere ai rispettivi popoli che questa guerra è una guerra di liberazione.
Noi siamo risolutamente contro ogni guerra tra popoli; e nei paesi neutrali, come l’Italia, dove i governi cercano di gettare nuova carne di popolo nella fornace della guerra, i nostri compagni furono, sono e saranno i più energici nell’opporsi alla guerra. Il compito degli anarchici, nella presente tragedia, qualunque possa essere il luogo e la situazione in cui si trovino, è di continuare a proclamare che c’è una sola guerra di liberazione: quella che in ogni paese è sostenuta dagli oppressi contro gli oppressori, dagli sfruttati contro gli sfruttatori. Il nostro compito è di spingere gli schiavi a ribellarsi contro i loro padroni. L’azione e la propaganda anarchica devono assiduamente e con perseveranza mirare a indebolire e disgregare i vari Stati, a coltivare lo spirito di rivolta ed a sollevare il malcontento nei popoli e negli eserciti.
A tutti i soldati di tutti i paesi, che credono di combattere per la giustizia e per la libertà, noi dobbiamo dimostrare che il loro eroismo e il loro valore serviranno soltanto a perpetuare l’odio, la tirannia e la miseria.
Ai lavoratori delle officine e delle miniere è necessario ricordare che i fucili che essi hanno nelle mani sono stati adoperati contro di loro nei giorni di sciopero o di legittima rivolta, e che più tardi contro di loro saranno di nuovo usati per obbligarli a subire lo sfruttamento padronale. Ai lavoratori dei campi è necessario mostrare che dopo la guerra saranno obbligati ancora una volta a piegarsi al giogo, a continuare a coltivare le terre dei loro padroni e a nutrire i ricchi. A tutti li reietti dobbiamo consigliare di non separarsi dalle proprie armi, finché non abbiano regolato i conti con i loro oppressori, e finché non abbiano preso possesso delle terre, delle miniere e delle officine.
Alle madri, spose e figlie, vittime dell’aumentata miseria e di tante privazioni, mostriamo quali sono i veri e reali responsabili dei loro dolori e del massacro dei loro figli, mariti e padri.
Noi dobbiamo profittare di tutti i movimenti di rivolta, di tutte le ragioni di malcontento, per fomentare l’insurrezione, per organizzare la rivoluzione dalla quale attendiamo la fine di tutte le iniquità sociali. Nessuno scoraggiamento, anche di fronte a una calamità come l’attuale guerra.
È in questi periodi così torbidi, in cui parecchie migliaia di uomini danno eroicamente la loro vita per un’idea, che noi dobbiamo mostrare ad essi la generosità, la grandezza e la bellezza dell’ideale anarchico: la giustizia sociale realizzata per mezzo della libera organizzazione dei produttori; la guerra e il militarismo soppressi per sempre, e la completa libertà vittoriosa sulle rovine dello Stato e dei suoi organi di coazione e di distruzione.

Leonard D. Abbott, Alexander Berkman, L. Bertoni, L. Bersani, G. Bernard, A. Bernardo, G. Barret, E. Boudot, A. Calzitta, Joseph J. Cohen, Henry Combes, Nestor Ciele van Diepen, F. W. Dunn, Ch. Frigerio, Emma Goldman, V. Garcia, Hippolyte Havel, T. H. Keell, Harry Kelly. J. Lemaire, E. Malatesta, A. Marquez, F. Domela Nieuwenhuis, Noel Paravich, E. Recchioni, G. Rijnders, I. Rochtchine, A. Savioli, A. Schapiro, William Shatoff, V. J. C. Schermerhorn, C. Trombetti, P. Vallina, G. Vignati, L. G. Woolf, S. Yanovsky.

note (1)Biribi – speciali battaglioni disciplinari, tutti locati in Africa del Nord (5 in Algeria, 3 in Tunisia, 1 in Marocco) in cui venivano mandati i soldati francesi insubordinati. Resi famosi da una canzone di Aristide Bruant, A Biribi (1891) e dai libri Georges Darien e Jacques Dhur, ma soprattutto dai reportages di Albert Londres pubblicati nel 1924 su Le Petit Parisien e successivamente in un libro (Dante n’avait rien vu) che attirarono l’attenzione della società francese sulla asprezza di tali battaglioni punitivi.

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