A governare vi sono forze che sono minoranza sia tra chi ha votato e sia in maniera ancora più marcata tra gli aventi diritto
di Carmine Valente
Il risultato delle elezioni politiche del 25 settembre hanno consegnato il governo dell’Italia alla forza politica più a destra all’interno del quadro istituzionale.
Il partito della Meloni, Fratelli d’Italia, per storie personali dei suoi leader e per riferimenti valoriali, culturali ed ideologici si ricollega a quelle forze post fasciste che dal Msi ad Allenza Nazionale hanno rappresentato quel filo nero che all’interno della Repubblica ha avviato quel processo di revisione in chiave democratica dell’esperienza fascista, facendo cesura con gli aspetti più violenti e aberranti di quella stagione, ma conservando una impostazione autoritaria, demagogica, retriva sui diritti e sulle libere scelte dell’individuo.
Quanto questa idea di società possa convivere con quei settori liberali che formano l’alleanza di centro destra, sia Forza Italia, sia il piccolo drappello dei moderati è materia di attenta osservazione per capire quanto e in che misura la risultante dell’azione governativa possa volgere verso la restaurazione sul terreno dei diritti, magari saldando un’ alleanza con i settori più conservatori del mondo cattolico.
Le osservazioni sin qui fatte, come quelle che sarà opportuno fare sulle cosiddette forze di opposizione, sono importanti perché le scelte politiche e le leggi che verranno promulgate saranno il frutto di queste alleanze, ma ai fini di quelli che sono e potranno essere i movimenti reali nel paese è di grande interesse un’analisi puntuale della dinamica del voto. (1)
Il dato più significativo che nei giorni successivi al voto è stato materia di attenzione e analisi è il sostanzioso aumento dei non votanti. Analisi ben presto archiviata e messa nel dimenticatoio.
Gli aventi diritti al voto erano 46.021.956, si sono recati alle urne 29.355.592, cioè il 63,79% degli aventi diritto, ma al netto di schede nulle – 817.251 – e schede bianche – 492.650 – i voti validi ammontano a solo 28.087.885, cioè il 61,03% degli aventi diritti.
Se osserviamo i dati della Tabella 1, emerge con grande chiarezza che a governare vi sono forze che sono minoranza sia tra chi ha votato e sia in maniera ancora più marcata tra gli aventi diritto.
Dati che ci fanno guardare al futuro con meno angoscia di quanto si percepisce dalle reazioni che nella sinistra diffusa si registrano.
La stessa analisi dei dati sull’astensione ci consegna una realtà complessa che fa emergere con sufficiente chiarezza l’incidenza delle condizioni materiali di vita nelle scelte sia del non voto , sia nella stessa distribuzione del voto.
Un primo dato eclatante, anche se conferma una tendenza già in atto nelle precedenti tornate elettorali, è l’astensione al sud dove nessuna regione supera il 60% di votanti e solo 3 regioni superano di poco il 70%. Vedi Tabella 2.
Una distribuzione che rispecchia fedelmente la classifica del PIL pro capite nelle regioni italiane. Vedi Tabella 3.
Ancora, l’astensione è più alta tra chi ha difficoltà economiche e tra gli operai , facendo registrare rispettivamente un più 10 e un più 9% sul dato generale. Dati che in parte sottraggono l’analisi del non voto alla narrazione che confina questo fenomeno a scelte di disinteresse e ad un qualunquismo che si vorrebbe assumere come dato di mutazione antropologica della popolazione.
Di converso tra i lavoratori autonomi si è registrata una astensione di ben 11 punti percentuali più bassa del dato generale; ciò segnala un riconoscimento di questo ceto verso le istituzioni e verso le politiche di sostegno all’imprenditoria che, in particolare durante la crisi dovuta alla pandemia, il governo ha profuso in modo significativo, evidenziando anche una netta scelta di classe sia in termini di collocazione oggettiva che di identificazione soggettiva nel campo del capitale. I numeri nella loro apparente aridità ci aiutano, più di dotte dissertazioni sulla deriva culturale del paese, a comprendere le dinamiche profonde che condizionano i comportamenti sociali e quindi anche le scelte elettorali. Le percentuali, sopra richiamate, che ci raccontano la poca attrazione esercitata dalle elezioni ci ha mostrato come la collocazione sociale e il reddito abbiano inciso in maniera sostanziale sulle scelte di voto e non voto; altresì la distribuzione dei voti alle diverse compagini politiche ci svela l’erroneità di alcuni assunti che caratterizzano tante analisi della sinistra più o meno moderata.
Il più significativo è l’idea che per contrastare la deriva conservatrice e autoritaria occorra ricorrere alla cultura, identificando l’ignoranza come il più potente volano della destra, ma, per quanto la cultura sia importante e da non sottovalutare, il dato elettorale ci consegna un’altra realtà.
Tutti i maggiori partiti da FdI al PD registrano un voto, distribuito per titoli di studio, omogeneo con il dato di consensi totali ottenuti. La cultura non polarizza il voto né per l’uno, né per l’altro.
È invece di un qualche interesse il dato che attesta la collocazione medio-borghese del PD che raccoglie consensi ben superiori al dato elettorale generale (19,07%) tra i dirigenti e i quadri 23% , insegnanti 23%, impiegati 20%, pensionati 25% .
Un attento esame e oggetto di approfondimento merita la marcata polarizzazione del voto che registra la lista del M5S. Il partito di Conte che si attesta al 15,43%, ha un picco del 20% fra gli operai e 40 e 59 per cento rispettivamente tra precari e disoccupati.
Tutti questi dati, ed altri elaborati dai centri studi, ci aiutano ad orientarci nella complessità della attuale congiuntura economica e sociale caratterizzata da una crisi economica che oramai dal 2008 si ripresenta con fenomeni nuovi, dal fallimento della Lehman Brothers, passando dalla pandemia del corona virus alla guerra nel cuore dell’Europa, ma che trova come soluzione la compressione dei redditi da lavoro e da pensioni e un progressivo restringimento del sistema di difese sociali che nel secolo passato aveva caratterizzato il cosiddetto Welfare State.
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