Alternativa Libertaria/FdCA
Iniziamo questo editoriale con una considerazione apparentemente ovvia, secondo la quale non si dovrebbe rimanere indifferenti alle dinamiche relative agli assetti istituzionali propri dell’attuale fase del sistema capitalistico.
Appare infatti scontato che un assetto politico e istituzionale orientato, schematizzando, verso concezioni e prospettive riformistiche sia da preferire a una svolta conservatrice e reazionaria.
Al riguardo il nostro compagno Errico Malatesta, nella nota polemica con il compagno Saverio Merlino, si esprimeva già nel 1897 con parole di mirabile chiarezza:
“…Ma tutto il detto è forse inutile per Merlino. Il pericolo reazionario è per lui semplicemente un’occasione ed un pretesto per difendere il parlamentarismo, non come un meno peggio, ma come un’istituzione necessaria della società. Egli conchiude infatti che il sistema parlamentare è cattivo perché è poco parlamentare… e che bisogna perfezionare il sistema, non distruggerlo… Ogni istituzione, per quanto cattiva, contiene in sé un certo lato buono, un certo correttivo, che limita i suoi mali effetti; e noi ci renderemmo la vita impossibile e faremmo gl’interessi dei nostri nemici se, costretti a subire tutto il male delle istituzioni, non cercassimo di profittare di quel po’ di bene relativo che se ne può ricavare. Ma non per questo possiamo ritenerci impegnati a difendere quelle istituzioni ed a cessare di fare tutto il possibile per discreditarle ed abbatterle… noi non crediamo nella buona volontà dei deputati e siccome aspiriamo all’abolizione del Parlamento, come di ogni altro governo, noi non ci proponiamo di nominare dei «buoni» deputati, ma di agire su quelli che vi sono, quali essi siano, agitando il popolo e facendo loro paura. E quando manchi una efficace agitazione popolare, noi faremo anche pressione sui singoli deputati perché rinfaccino al governo i suoi abusi, ma lo faremo perché, o essi si presteranno ai nostri desiderei, e sarà fatta chiara la loro impotenza, o non vi si presterano e si vedrà la loro malavoglia.”
Ed è proprio in considerazione di queste nostre premesse, antiche ma attualissime, che riteniamo non si possa e non si debba ostentare indifferenza alle dinamiche del potere nelle loro implicazioni economiche, sociali e istituzionali, così come storicamente si sviluppano nel quadro dei rapporti di produzione capitalistici esistenti ma, parimenti, crediamo anche che si possa e che si debba rimanere autonomi da queste dinamiche, anteponendo ad esse la necessaria considerazione del conflitto tra le classi, quale motore della storia e di ogni progresso sociale.
Democrazia borghese e dittatura fascista
Intendiamoci, non crediamo che la deriva autoritaria della democrazia borghese debba essere sottovalutata: riteniamo però che sia opportuno contestualizzare, perché la replica dell’incarico di presidente della repubblica italiana recentemente conferita a Sergio Mattarella che, verosimilmente, potrebbe restare in carica per un altro settennato, se è obiettivamente da qualificare come un “vulnus”, non corrisponde certamente alla presa del potere di mussoliniana memoria.
Fascismo e democrazia sono le due facce estreme del dominio della borghesia e sono da questa “dosate”: talvolta con omeopatica sapienza, talvolta con la violenza aperta della dittatura fascista, a seconda del dispiegarsi delle necessità e delle realistiche possibilità di mantenere i profitti, la loro accumulazione e l’egemonia di classe sull’intera società.
Come è noto la forma della dittatura fascista si affermò in Italia e in Germania attraverso un percorso costituzionale: per cui siamo perfettamente consapevoli che la democrazia borghese non ostante tutte le sue migliori intenzioni, istituzioni, libertà democratiche, sistemi elettorali, corpi separati, sovranità elettorale e parlamentare, può celare nel suo ventre molle le premesse dell’involuzione fascista di un’intera società.
In ogni epoca, infatti, se la borghesia riesce a garantirsi profitti e egemonia istituzionale e politica ben venga la democrazia parlamentare: ma se i profitti sono messi in discussione e la sua egemonia sulla società vacilla sotto la spinta della lotta tra le classi, nella cornice della crisi e di un inasprirsi dello scontro imperialistico sui mercati internazionali, la svolta autoritaria cessa di essere un vessillo per divenire realtà praticabile, fino alle estreme conseguenze della dittatura fascista, così come la storia insegna.
Deperimento della democrazia e competizione imperialistica
La restaurazione borghese che oggi si va prospettando rappresenta la risultante di fenomeni antichi, che sono andati collegandosi nel tempo: la sconfitta delle classi subalterne e la medesima destabilizzazione del movimento operaio e sindacale, maturate nel quadro del lungo ciclo della ristrutturazione capitalistica internazionale, che dall’industria si è progressivamente esteso all’intera società.
Questi processi, lenti e profondi, hanno enormemente incrementato la concentrazione della ricchezza sociale prodotta in pochissime mani, creando nuove disuguaglianze e una frammentazione sociale che vede aumentare la miseria di crescenti strati della popolazione, e con essa i livelli di sfruttamento della forza lavoro manuale e intellettuale, aggredendo storiche conquiste del movimento operaio e sindacale.
Anche l’intera vicenda della pandemia non si sottrae alla gestione borghese che, come in ogni altra situazione di crisi, privilegia la massimizzazione dei profitti a scapito delle condizioni di esistenza della nostra classe.
Se queste sono le premesse storiche e se questa è la realtà, come d’altronde crediamo che sia, c’è da dire che all’orizzonte non si prospetta una deriva fascista, ma “il binomio Mattarella – Draghi”: vale a dire il prosieguo e la stabilizzazione di una restaurazione neocentrista che si realizza in una sorta di “pianificazione autoritaria e monop
Ne consegue il rafforzamento dell’esecutivo posto in mano a soggetti di fiducia e svincolato dalla asfittiche dinamiche parlamentari, esautorando ulteriormente l’attività del parlamento e, verosimilmente, le prossime elezioni politiche confermeranno questo riassetto.
Come disse Draghi: “il governo va avanti” ma, aggiungiamo noi, nella cornice dell’ancora debole e incerto imperialismo europeo il quale, per far fronte all’inasprirsi della competizione imperialistica sui mercati internazionali, dovrebbe essere unito, ma ancora non possiede questa capacità come anche “i venti di guerra” in Ucraina dimostrano ampiamente
L’Europa appare in questo scenario del tutto subalterna alla NATO, in una condizione fragile e contraddittoria che la colloca tra le mire espansionistiche degli USA e gli intenti egemonici della Russia sull’area slava. Una subalternità nella quale anche il governo italiano svolge il suo ruolo, dato che si sta apprestando a inviare un contingente militare in Ungheria, a presidio del fianco sud/est dell’Europa.
Neocentrismo e unità nazionale
Le stesse forze sindacali confederali, con i loro richiami al senso di responsabilità, concretatisi con il sostegno al governo Draghi, sono arruolate in questo disegno neocentrista e reazionario, non ostante la parentesi dello sciopero del 16 dicembre ultimo scorso, che figura ormai come una demagogica concessione ai settori più combattivi del movimento sindacale e dei movimenti di massa e che si è risolto, infatti, in una pagina che le stesse organizzazioni sindacali CGIL e UIL, che quello sciopero hanno indetto, si dimostrano disponibilissime a archiviare definitivamente. Il resto che emerge dalle cronache governative e parlamentari è la riproposizione del teatrino della politica in una fase specifica della crisi, nella quale la borghesia italiana intende affermare la propria egemonia, per accaparrarsi la gestione dei fondi cospicui che il PNRR prevede di gestire.
Anche in considerazione di questa specifica dinamica vale la pena di indugiare su di un concetto il più delle volte consapevolmente e comunque colpevolmente omesso: lo stato con tutti i suoi organi istituzionali non costituisce, in ogni caso, un’entità neutrale, ma rappresenta la sovrastruttura con la quale il capitale tende a esercitare la propria egemonia sull’intera società a discapito delle classi oppresse.
La stessa costituzione democratica nata dalla resistenza, “la costituzione più bella del mondo”, si rivela allora nella sua vera essenza e funzione.
Sorta da una inevitabile concessione alle aspirazioni di riscatto sociale e di libertà, che avevano mosso la Resistenza nella lotta armata al regime fascista, la costituzione della repubblica si qualifica come un contenitore omnicomprensivo delle migliori intenzioni dei settori più avanzati e democratici della borghesia capitalistica, capaci di ammantarsi anche di elementi socialistici e egualitari, purché rimangano a livello di enunciati astratti e complessivamente inpraticabili.
Un fenomeno questo tutt’altro che nuovo nel nostro paese, dato che la lunga fase prefascista aveva visto settori della borghesia italiana “civettare” con il PSI di Turati in mancanza di validi riferimenti politici propri. Queste componenti borghesi non è che fossero divenute socialiste: era il PSI di Turati ad essere sotto l’influenza decisiva della borghesia.
Il ritorno alla costituzione nata dalla Resistenza
La modernità, il nuovo, va oltre il compromesso Keynesiano, supera l’attuale impianto costituzionale che, perlomeno nell’aspirazione, si proponeva di vincolare l’impresa all’etica, e riporta indietro l’orologio della storia approdando alle virtuose capacità del libero mercato come unico elemento di sviluppo progressivo della società.
Da questo approdo è necessario partire, avendo la consapevolezza che il ciclo apertosi con la lotta di liberazione, e che ha trovato il punto più alto nel periodo a cavallo degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, è definitivamente chiuso e che nessuna ulteriore spinta propulsiva può giungere da quella esperienza che, pure, deve essere ancora oggi rivendicata con intransigenza e rimanere nella nostra memoria.
Non è quindi il caso di attardarci in paragoni storici e paventare scenari apocalittici quali il ritorno al fascismo o altre disdicevoli semplificazioni: si tratta, piuttosto, di riconoscere i fenomeni per ricondurli ai loro autentici contesti.
Ci riferiamo a tutte quelle tendenze che individuano nel ritorno ai più autentici intenti dei “padri europeisti” o ai più integrali valori fondanti la costituzione, la chiave buona per aprire tutte le porte sbarrate dalla crisi se non, addirittura, per rifondare una sinistra parlamentare ormai in crisi di identità e del tutto subalterna agli interessi capitalistici.
Non si tratta, allora, di liquidare un patrimonio di libertà sia pure borghesi, per la strenua difesa di una alternativa rivoluzionaria che non c’è stata proprio perché non era nelle prospettive storiche, sottovalutando i contenuti di libertà propri della transizione anche istituzionale dal fascismo alla democrazia borghese: ma di collocare quelle libertà, magari solo enunciate, all’interno dei contesti storici nei quali si sono sviluppate, per comprendere che un progetto politico di emancipazione sociale deve avere qualche cosa in più del semplice enunciato costituzionale, sia pure nobile.
Alle migliori intenzioni borghesi, che comunque apprezziamo, diamo la precedenza agli obiettivi concreti per la difesa intransigente degli interessi della nostra classe e, da questo punto di vista, le garanzie costituzionali da sole non servono a garantire quei diritti che la stessa borghesia ha ampiamente e consapevolmente contraddetto, realizzando nel corso della sua storia un sistema sociale basato sullo sfruttamento anteponendo, sempre, le esigenze del profitto e della divisione di classe a quelle della liberazione dal bisogno, della libertà e dell’emancipazione delle classi subalterne. Per cui, nel difendere i concetti di libertà, pace, uguaglianza e lavoro, garantiti in enunciato dalla costituzione, questo non ci sfugge, noi non facciamo riferimento al dettato costituzionale ma alla storia della nostra classe, che ha raccolto questi ideali dal fango in cui la borghesia li aveva gettati, ponendoli alla base dello sviluppo dell’umanità.
Questi concetti, che la costituzione astrattamente ripropone, sono stati difesi nel concreto dal proletariato mondiale e dalle sue organizzazioni politiche e di massa, proprio perché parte integrante della sua storia, dei suoi programmi e delle storiche conquiste che hanno qualificato i suoi percorsi di emancipazione, e sono proprio queste conquiste ad essere oggi aggredite dai grandi processi di ristrutturazione. Esse vengono meno proprio perché è crollato il tessuto sociale, culturale organizzativo e di classe che le sosteneva e che le aveva rese possibili, originando quelle spinte verso il progresso delle classi subalterne e il loro progressivo rafforzamento.
Non è quindi il caso di partire da astratte formulazioni sia pure comprendenti le intenzioni più nobili, ma dalla realistica consapevolezza della fase in atto, delle sue caratteristiche e dai compiti nostri.
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