Precariato e precarietà
Premessa
Consideriamo la contestualizzazione storica della variazione delle dinamiche e delle peculiarità dell’organizzazione capitalistica dalla sua fase fordista a quella post-fordista un prerequisito indispensabile per ogni tentativo di approccio critico all’analisi del fenomeno della precarizzazione delle condizioni di lavoro e, più in generale, dell’intero quadro dell’esistenza di ogni singolo membro della classe subalterna.
Riconosciamo come tratto peculiare dell’organizzazione del capitale d’epoca fordista, con particolare riferimento al periodo successivo al secondo conflitto mondiale, la messa in atto di un meccanismo volto a risolvere la tendenza intrinseca alla sovraccumulazione attraverso la pianificazione economica, il controllo monopolistico delle grandi imprese sui mutamenti tecnologici ed organizzativi, la limitazione del conflitto di classe ottenuta per tramite delle contrattazioni collettive e delle politiche del welfare, il diretto intervento statale finalizzato a tenere in equilibrio produzione in serie e consumi di massa, cui si aggiunge la pratica del finanziamento a debito degli investimenti.
Collochiamo nella stessa prospettiva le caratteristiche della crisi del modello fordista che si palesa nei primi anni Settanta, assegnando al loro rinvenimento la medesima importanza degli elementi di cui al punto sopra. In quest’ottica rintracciamo nella fine della spinta economica data dalla ricostruzione in Europa e Giappone, accompagnata dal calo della domanda effettiva negli USA, l’elemento da cui prende avvio il declino della produttività e della redditività delle grandi imprese statunitensi dopo il 1966, fino ad un’accelerazione dell’inflazione che indebolisce il ruolo del dollaro e porta alla crisi creditizia del 1966-67. A ciò si aggiunge la prima grande spinta delle multinazionali verso il trasferimento all’estero delle attività produttive in direzione di aree caratterizzate da un minor costo del lavoro, che porta ad un’intensificazione della concorrenza internazionale. A partire da queste premesse prende corpo l’ondata inflazionistica che nel 1973 porta al crollo mondiale dei mercati immobiliari e, insieme al contemporaneo shock petrolifero, accelera il concretizzarsi della fase recessiva.
Accogliamo l’interpretazione secondo cui la ristrutturazione capitalistica, che si prefigge come obiettivo il superamento delle condizioni specifiche cui si collega la “rigidità” del sistema fordista, assume il meccanismo dell’accumulazione flessibile come matrice per la costruzione di un sistema organico finalizzato al raggiungimento di un’accresciuta acquisizione di plusvalore.
Strutturiamo pertanto il nostro tentativo di analisi sulla base del riconoscimento di uno stretto nesso concettuale e funzionale fra il meccanismo dell’accumulazione flessibile e il fenomeno della precarizzazione. Entro il quadro di tale nesso collochiamo un intervento tanto diversificato quanto strutturale del capitalismo volto a fondare un nuovo modello di rapporti di produzione, attraverso l’attivazione di tutti gli strumenti a sua disposizione, dalla coercizione diretta alla declinazione di nuovi valori e stili di vita veicolati dalla pervasività dell’egemonia culturale borghese.
Soprassediamo, in virtù di quanto finora sostenuto, da valutazioni circa il ruolo delle organizzazioni sindacali, abbiano esse carattere di massa o si limitino a raccogliere un segmento di classe assai limitato, scelgano la linea del compromesso con le istanze padronali o assumano posizioni capaci di esprimere un qualche grado di conflittualità. Fondiamo questa scelta non sul rifiuto tout-court dell’azione sindacale, prassi – quella del rifiuto aprioristico – alla quale non accettiamo di ridurre la nostra posizione, ma perché, a ragione delle suddette trasformazioni nell’organizzazione dell’estrazione capitalistica di plusvalore dall’attività di ciascun lavoratore, consideriamo in via di esaurimento la modalità organizzativa sindacale imposta dalle dinamiche fordiste del capitale, ossia quella per categorie. Siamo peraltro consapevoli del fatto che le trasformazioni rammentate poco sopra, pur essendo ormai caratterizzanti il modello capitalistico, non sono onnicomprensive: esistono e continueranno ad esistere specifiche situazioni nelle quali potranno trovare continuità pratiche consolidatesi negli ultimi decenni, alla cui perpetuazione sarebbe insensato opporre una richiesta di cambiamento, fintanto che tali pratiche saranno in grado di coinvolgere i lavoratori e di rispondere in maniera commisurata all’attacco del capitale.
Parte prima – L’accumulazione flessibile come paradigma del post-fordismo
Dalla metà degli anni Settanta ha inizio una forte innovazione di processo e di prodotto che coinvolge l’intera organizzazione industriale capitalistica, che si articola a partire da una riprogettazione complessiva finalizzata all’ottenimento di un’accelerazione dei tempi di rotazione del capitale e che trova piena realizzazione mediante l’accresciuta innovazione tecnologica e dei modelli di automazione, i processi di delocalizzazione e i grandi piani di acquisizioni e fusioni che delineano il profilo sempre più oligopolistico del capitale mondiale. A questa innovazione si accompagna un mutamento del sistema istituzionale di mediazione politico-sociale: lo Stato, assurto a vero e proprio generatore di deregolamentazione sociale nel rapporto capitale-lavoro, di fronte alla necessità del capitale di controllare in modo sempre più accentuato la conflittualità dei lavoratori e l’antagonismo sociale in genere, interpreta un ruolo fondamentale nel veicolare la nuova ideologia per l’accumulazione, che si ramifica a partire dal concetto di flessibilità. Tale concetto, in virtù della sua capacità di inerire ai diversi ambiti su cui si dispiega il nuovo progetto di organizzazione del capitale, dai processi produttivi ai mercati del lavoro, diventa il leitmotiv di una ridefinizione degli assetti strutturali dei rapporti di produzione ed assume al contempo il ruolo di narcotico rispetto a qualsiasi minaccia si rivolga all’ordine sociale capitalista. È in misura significativa attraverso l’uso del concetto di flessibilità, tanto massificato quanto opportunamente declinato nei suoi vari ambiti di influenza, che le “rigidità” del sistema fordista vengono superate per assicurare mano libera al capitale nella realizzazione del suo progetto di modificazione unilaterale del rapporto con la forza-lavoro e dell’organizzazione del ciclo produttivo, con particolare riferimento al mutato modo di interpretare le dinamiche spaziali della produzione.
Si giunge così ad un’accelerazione nella trasformazione politico-economica del capitalismo internazionale, nel tentativo di combinare al massimo grado le modalità incentrate sul plusvalore assoluto e sul plusvalore relativo. Oltre a rappresentare una probabile tendenza caratterizzante il prossimo futuro, già oggi è visibile come i processi di accumulazione flessibile seguano una duplice direttrice. Da un lato essi si fondano sull’allungamento degli orari di lavoro complessivi a fronte di un peggioramento del tenore di vita – più lavoro straordinario, più lavoro atipico, vivere sociale come momento della produzione – dovuto, fra l’altro, al decremento del salario sociale complessivo causato da processi aziendali di delocalizzazione verso aree periferiche con bassi costi di manodopera. Dall’altro, invece, si afferma un modello caratterizzato dal connubio fra un numero crescente di ristrutturazioni organizzative e di innovazioni tecnologiche ed organizzative, all’interno delle quali gioca un ruolo cruciale una forza-lavoro estremamente specializzata e con una capacità di comprensione-gestione delle nuove tecnologie e di orientamento al mercato.
In virtù dei suddetti presupposti, la sottomissione del lavoro al capitale come processo necessario per la generazione di plusvalore conosce una profonda radicalizzazione nell’ambito delle dinamiche dell’accumulazione flessibile: se nel capitalismo delle manifatture tale sottomissione era per lo più formale, mentre nelle grandi industrie meccanizzate diventava invece reale, ora essa pare divenire biopolitica, capace di piegare al proprio interesse, cioè, anche le più recondite aree di potenzialità trasformativa della vita di ogni lavoratore. È dunque il soggetto assunto nella complessità delle sue capacità sociali ad essere messo a funzione dello sviluppo del sistema capitalistico del valore.
La mercificazione del soggetto diventa così pressoché assoluta ed arriva a coinvolgere, nella sua logica operativa di fondo, anche quegli ambiti sociali che fino ad ora non erano stati coinvolti dai processi di valorizzazione in quanto considerati non funzionali all’estrazione di plusvalore. È così che si crea un nesso indissolubile fra l’attività produttiva e la persona che la svolge: l’astrazione e la quantificabilità che la caratterizzavano all’interno del paradigma fordista lasciano ora il posto ad una sua ri-soggettivizzazione, che finisce per esaltarne gli aspetti qualitativi e che si pone come risorsa decisiva nel fronteggiare le mutevoli esigenze del mercato. La soggettività dei dipendenti cessa di essere interpretata dalla logica del capitale come elemento di disturbo e perde pertanto il suo potenziale di fattore di compensazione, una volta assorbita nel nuovo modello sistemico come fattore produttivo centrale. L’obiettivo di trasformare il lavoro riducendolo ad una merce come tutte le altre, capace di circolare in maniera libera e non vincolata all’interno del mercato, rendendolo al contempo più modulabile e limitandone l’incidenza sui costi di produzione, viene raggiunto mediante la messa in pratica di una strategia fondata sul depotenziamento del suo statuto semantico di “bene sociale”.
La de-standardizzazione delle forme lavorative implica poi una diversificazione delle possibilità di accesso ai diritti e alle tutele del lavoro. Aumenta quindi in maniera esponenziale il numero dei soggetti costretti a subire le ricadute della flessibilità: status sociali ed occupazionali più deboli nell’ambito di attività di lavoro intermittenti, inadeguate ad assicurare un riconoscimento (ed auto-riconoscimento) sociale, mentre all’aumento delle costrizioni lavorative si collega in maniera inversamente proporzionale la disponibilità di protezioni sociali. In uno scenario contraddistinto dalla precarizzazione dell’occupazione, si diffondono in maniera crescente nuove condizioni di vulnerabilità sociale, che procedono in parallelo rispetto alla segmentazione delle condizioni socio-occupazionali e all’individualizzazione delle carriere lavorative.
Nel momento in cui la vulnerabilità si afferma come condizione sociale diffusa, essa assume il potere di svolgere una fondamentale funzione di regolazione del regime di accumulazione flessibile: essa, infatti, permette lo sviluppo di una crescente asimmetria di potere nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, la cui maggior preoccupazione diventa la necessità di stabilizzare la propria posizione occupazionale dimostrando piena lealtà e dedizione all’impresa. Non meno, si assiste ad una profonda e complessa segmentazione interna alla classe lavoratrice, veicolata dalla diversificazione delle condizioni lavorative, che porta alla progressiva destrutturazione del contropotere salariato al dominio del capitale.
Parte seconda – Fotografia in movimento del soggetto precario
Esistono profonde differenze fra precari di prima e seconda generazione. Per i primi l’elemento della precarietà si configura come strettamente legato alle caratteristiche peculiari della propria prestazione lavorativa, spesso localizzata in ambiti tecnologicamente all’avanguardia di settori di tipo immateriale e intellettualizzato. Qui nasce la figura del freelance che, almeno per certi versi, esprime la misura in cui nuove figure professionali devono adattarsi ad un sistema produttivo che è pronto ad accoglierle a patto che esse sappiano dimostrare il necessario grado di flessibilità. Si tratta della figura precaria tipica della prima fase del periodo post-fordista, soggetto ancora anfibio rispetto alle dinamiche novecentesche dei rapporti di produzione-lavoro e a quelle ormai tipiche del Terzo Millennio.
Il precariato di seconda generazione, invece, non è più limitato a specifici ambiti lavorativi e non si configura come espressione di capacità individuali di adattamento, in cui gioca un certo peso anche la creatività del sapersi inventare – o re-inventare – rispetto alle esigenze del mercato del lavoro. Questo nuovo precariato, inoltre, non è più primariamente legato a settori di tipo immateriale ed intellettualizzato, ma corrisponde ora alla figura stessa del lavoratore contemporaneo. L’elemento della precarietà, prima caratterizzante certe specifiche tipologie professionali, è ormai diventato la caratteristica diffusa del lavoro in quanto tale. Pertanto, se in passato tale condizione poteva essere il connotato di quello spazio della vita occupato dal lavoro, oggi è invece la vita stessa, almeno fintanto che continua a caratterizzarsi sulla base di un reddito da lavoro, l’orizzonte molto più ampio su cui la condizione di precarietà getta le sue ombre.
Questa prospettiva influisce pesantemente sul rapporto dell’uomo contemporaneo con il tempo ed ha come conseguenza l’estinzione del “tempo libero”, ossia del tempo vissuto su cui si giocano le libere scelte dell’individuo. Partendo da una concezione di libertà come di possibilità di strutturare e di (cercare di) realizzare la progettualità della propria vita, è evidente come la condizione di precarietà – che esprime un’esigenza di flessibilità che non è, o non è più, quella del soggetto che si approccia in modo flessibile all’attività lavorativa a difesa degli spazi di gestibilità del proprio tempo personale, ma al contrario quella che gli è imposta dal lavoro affinché egli possa essere accolto all’interno del sistema produttivo – elimina ogni possibilità di inquadrare il progetto di vita all’interno dello spazio-tempo liberamente scelto.
Ne deriva che la fenomenologia del lavoro appaia oggi al suo interno sempre più discordante (le biografie professionali e le carriere lavorative sono sempre più difficili da “narrare” in modo coerente), dissociante (l’azione personale sempre meno riesce a coniugarsi sinergicamente con quella dei collettivi di appartenenza) e disgregante (le classi sociali sono sempre meno capaci di comune azione politica). Il soggetto coinvolto, spesso suo malgrado, nella flessibilità produttiva tende a perdere la propria autonomia e rischia di essere marginalizzato dal discorso sociale. La dissociazione tra individuo e collettivo, che il capitalismo post-fordista assume come uno dei suoi principi di funzionamento, sviluppa una condizione patologica del soggetto.
Nel frattempo il bisogno di migliorare la condizione occupazionale spinge un numero crescente di lavoratori, sotto la pressione di una possibile sostituzione con un lavoratore di riserva maggiormente accondiscendente, ad aumentare il proprio livello di “auto-sfruttamento”, ad abbassare le richieste di protezione sociale e ad incentivare così il livello complessivo di sfruttamento delle proprie energie valorizzanti in funzione degli obiettivi funzionali di impresa. In questo senso l’azione politica collettiva di classe diventa il vero protagonista assente dallo scenario sociale contemporaneo.
Esistono però anche spiragli di luce nel quadro assai fosco fino ad ora tracciato. La precarizzazione massificata ha infatti prodotto un allentamento degli schemi fondati sull’ideologia del lavoro: il precario di seconda generazione non fa più del lavoro un fattore di riconoscimento e di soggettivazione, non riconosce più la società come fondata su di esso e non progetta il proprio futuro sulla base del lavoro, anzi è consapevole dell’incapacità del lavoro di garantire quel futuro. In questa prospettiva egli si emancipa dall’ideologia lavorista nella quale era ancora impantanato il precario di prima generazione, non è più mosso dall’anelito verso l’età dell’oro della piena occupazione. Pertanto il lavoro non è più l’orizzonte entro cui si giocano i suoi progetti, né la prospettiva lavorativa rappresenta più l’alfa e l’omega della sua vita. È un soggetto disorientato perché privo di qualsiasi segno di fede nell’ideologia social-illuminista del “lavoro = progresso” (la si assuma nella prospettiva del socialismo reale o in quella dell’etica protestante che è elemento trainante del capitalismo), ma è anche un soggetto libero dall’illusione post-fordista relativa all’indiscutibilità dell’equazione allargata “lavoro = produzione = ricchezza”. Resta da capire se sarà in grado di pensare una nuova ricchezza, in cui la produzione di beni e servizi verrà ricondotta all’interno di un orizzonte progettuale che abbia come coordinate lo “spazio umano” e il “tempo umano”, in cui l’attività non coincida inevitabilmente con il lavoro salariato, ma sia capace di ancorarsi ad una prospettiva di riproduzione sociale e di solidarietà diffusa.
Parte terza – Ipotesi di intervento
L’incapacità di modificare le forme di risposta nei confronti di un potere egemonico sul piano economico-politico-sociale deriva dall’assenza di una teoria dell’organizzazione commisurata alla struttura e alle espressioni assunte da tale potere. È per questo motivo che riteniamo necessaria una ristrutturazione del sindacato che sia coerente con gli sviluppi del capitale. È in virtù dell’inserimento critico di tale convinzione nel quadro di quanto fino ad ora espresso nella presente bozza di analisi che fondiamo il rinvenimento, ottenuto mediante discussione collettiva, di alcuni punti focali che sottoponiamo al dibattito dei compagni della Federazione:
- A partire dal riconoscimento delle sempre più evidenti difficoltà nell’inquadrare la presenza e l’attività sindacale dei lavoratori – oltre ai loro interessi in quanto membri della classe – entro sotto-organismi categoriali resi in molti casi obsoleti dalla ristrutturazione capitalistica dei rapporti di lavoro, si rende necessario un intervento, ad opera dei compagni attivi nelle organizzazioni di riferimento, volto a promuovere una riorganizzazione dei lavoratori stessi sulla base di dinamiche intercategoriali che siano in grado di inserire nel quadro sindacale anche quelle figure che ne restano oggi escluse in virtù del modello della categorialità. Non vediamo altra strada per ricomporre, almeno al livello della sindacalizzazione di massa, un quadro frantumato e sempre più abbondantemente popolato da figure come i lavoratori al nero, gli inattivi e i disoccupati. Senza dimenticare l’ampia schiera di lavoratori il cui livello di precarietà è tale da costringerli ad un turnover dai tempi rapidissimi su posizioni occupazionali assai diverse fra loro sul piano del profilo professionale e delle mansioni ad esso correlate, lavoratori altrimenti inintercettabili mediante quelle rigide categorie la cui rappresentatività era intimamente legata al modello fordista di produzione e che oggi, a parte rare eccezioni, è ormai tramontata.
- Accogliendo favorevolmente l’apertura di alcuni sindacati – o parte di essi – ai movimenti, sosteniamo la necessità, alimentata dalle ricadute dell’offensiva capitalista su tutti i componenti della classe subalterna, di orientare in maniera programmatica tale apertura in funzione dell’affermazione, in seno alle organizzazioni sindacali, di tendenze volte al superamento di una mera visione fabbricista a favore di un ampio coinvolgimento nel sociale. In questa prospettiva affermiamo la necessità di individuare denominatori comuni – dal salario ai diritti, dal carovita alla casa – capaci di porsi come motori di un progetto di ricomposizione di classe.
- Consapevoli di quanto la suddetta dinamica ricompositoria, vista la depressione in cui versano sia la coscienza di classe sia il suo quantum rivendicativo attuale, potrà essere minima e graduale, ne affermiamo il carattere indispensabile per qualsiasi progetto orientato sulla base della lotta di classe e in funzione di una sua progressiva estensione e radicalizzazione. Tale percorso potrà essere foriero di risultati solo se l’orientamento sulla direttrice tracciata nei punti precedenti del presente documento verrà rafforzato dalla creazione e dalla progressiva estensione di strumenti di mutualismo solidaristico, la cui strutturazione potrebbe essere pratica attiva di tutti quei compagni militanti che non trovano collocazione all’interno del sindacato. In particolare oggi, l’importanza di siffatti strumenti risiede nel fatto che essi si pongono come unico mezzo per intervenire sui “lavoratori di riserva”, figure emblematiche di una condizione intermittente e trasversale a tutte le figure cosiddette atipiche, ma che rappresentano ormai la tipicità all’interno dell’attuale sistema di sfruttamento.
(atti del VII Attivo FdCA sul mondo del lavoro, 2012)