Lotte e territorio
Negli ultimi anni le lotte ambientali e territoriali hanno assunto un carattere capillare, espandendosi in aree che magari politicamente e socialmente parlando sono da sempre dormienti. Il grado di penetrazione di una grande opera o di uno stravolgimento paesaggistico e urbanisticoo è estremamente elevato nella cittadinanza, basti pensare alla miriade di comitati sorti spontaneamente e contrari a nuove autostrade, gasdotti, centrali idroelettriche, termovalorizzatori, biogas e via discorrendo. Tutte queste battaglie si aggiungono alla lunga marcia del movimento No Tav, al serpentone No Triv che – partendo dalla Puglia e risalendo la catena appenninica – arriva nella bassa padana, e alle sempre attuali lotte contro il Muos, le basi NATO e il nucleare, soprattutto quello ad uso militare.
Non si tratta di essere a prescindere contro ogni opera impattante, né di invalidarne l’utilità senza averne studiato l’effettiva portata. Ma di riconoscere che nelle nuove forme di accumulazione del capitale, e nelle modifiche della catena del valore, anche lo spazio e il territorio sono funzionali ed essenziali alla estrazione del profitto. L’urbanizzazione e la realizzazione di infrastrutture occupano e assumono importanza indispensabile al progetto del capitale. La stessa vita delle persone, viene piegata a queste esigenze, il tempo si spende in un sistema urbanistico costruito per persone indebitate e per consumatori funzionali alla riproduzione del capitale.
La motivazione che ci deve guidare deve sempre essere quella anticapitalista: le grandi opere, le infrastrutture impattanti, i mega impianti energetici servono in primis al capitale e solo secondariamente – e nemmeno sempre – ai territori. Una politica seria e che realmente avesse a cuore le sorti della cittadinanza coinvolta si consulterebbe con le persone, i comitati spontanei e le associazioni, fornirebbe dati, esporrebbe pro e contro e valuterebbe le proposte alternative che arrivano da chi sul territorio ci vive. Ma sappiamo tutti che questo è il mondo reale, non il regno delle fiabe. L’iter è sempre scientificamente uguale a sé stesso invece: accordi tra imprese, piani industriali decisi nei consigli di amministrazione, finanziamenti bancari e comunitari, prebende a cascata a politica e ditte in subappalto, leggi approvate d’urgenza per consentire di velocizzare l’opera, articoli compiacenti e massivi sulla stampa (pena la perdita del finanziamento tramite pubblicità), via all’opera, decantata come indispensabile. Grande opera o barbarie verrebbe da dire.
E i territori? Mai ascoltati, anzi tacciati di ottusa ostilità per partito preso, enclave di luddisti contrari al progresso, con successivo corollario di repressione delle lotte, inasprimento delle leggi e delle pene e addirittura carcere per reati anche meramente d’opinione.
Per questi motivi è necessario estendere la lotta di classe alle lotte territoriali ed ambientali: oggi come oggi rappresentano un punto di scontro con il capitale che è ineludibile. Anche le nostre città vengono pesantemente ridisegnate privilegiando logiche predatorie legate alla mercificazione della cultura e logiche di investimenti immobiliari (gentrificazione) piuttosto che alle reali esigenze degli abitanti, a spese degli strati più deboli.
Quando un territorio viene devastato e sfruttato a scopo di profitto, è inquinato, spoliato dalle proprie risorse per i profitti di pochi, a pagarne le conseguenze in termini economici e di salute, sono sempre gli strati sociali più deboli. Un capitalismo che ha bisogno di prebende statali (alla faccia del neo-liberismo) per grandi opere inutili, disponibile, pur di mantenere alti i suoi profitti, a devastazioni territoriali e a trovare politici che lo sostengono. Il sostegno alle iniziative di lotta e di resistenza, per quanto possano apparire piccole e periferiche è quindi una pratica indispensabile per gettare dei piccoli granelli nel meccanismo perverso di un capitale che rispetta solo sé stesso, sperando di incepparlo quanto prima.
Stare nelle lotte non significa subirle passivamente: significa difendere la prassi libertaria, orizzontale e di classe. Stare nelle lotte significa non delegare: è sotto gli occhi di tutti come anche i sedicenti governi del cambiamento calino le brache appena si trovano a dover fronteggiare veramente il grande capitale. E’ essenziale invece il coinvolgimento dal basso paziente e certosino, l’inclusività, la valorizzazione dei saperi tecnici, indispensabili per poter comprendere e saper contrastare, come quasi trent’anni di lotta contro la Torino-Lione ci dimostrano con chiarezza. Infine, stare nelle lotte non significa dimenticare che la nostra è una organizzazione rivoluzionaria di classe: i danni economici, ambientali e urbanistici causati dall’avidità del capitalismo li pagheranno in primis chi sta peggio.
Gli effetti a livello globale dell’inquinamento dovuto a scelte speculative e di interesse, ricadranno esclusivamente sulle classi più povere della popolazione. Gli effetti dei cambiamenti climatici saranno amplificati dalle differenze sociali. I più poveri pagheranno ancora una volta le scelte dei più ricchi.
E sul riscaldamento climatico globale, dopo anni di negazionismo, le diverse scuole di pensiero differiscono sulle cifre ma concordano sugli scenari, dalla desertificazione alla diminuzione delle riserve idriche, contenute o no nei ghiacciai, ai mutamenti climatici con esasperazione degli eventi estremi, sempre più catastrofici perchè il territorio è sempre più fragile. Il sistema di produzione capitalistico resta il responsabile dell’emisssione di quantità di gas serra in continuo aumento nonostante i pallidi tentativi di regolamentazione, intesi più a contrastare da un punto di vista concorrenziale aree in rapida crescita e a mantenere inalterati gli equilibri (o meglio gli squilibri) esistenti. Una inversione di tendenza non può essere lasciata al governo degli attori sovranazionali o economici, ma deve entrare con urgenza nelle rivendicazioni sociali.
Un rigoroso studio dell’AEA (Agenzia Europea Ambiente) insieme a CMCC ( Centro Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici), ha confermato che le aree meridionali dell’Europa sono quelle più a rischio. Le aree urbane delle grandi città in Francia, Italia e Spagna sono quelle dove il cambiamento climatico inciderà di più, e le condizioni economiche saranno determinanti per la sopravvivenza, soprattutto di anziani e bambini, i soggetti più esposti. Spesso sono i quartieri più poveri a patire la vicinanza a fonti inquinanti, siano esse industrie o strade trafficate, inceneritori o ex zone industriali mai bonificate. Chi ha disponibilità economica opterà per quartieri residenziali contornati da lussureggiante vegetazione e distanti dalle mortifere esalazioni inquinanti.
Stesso discorso vale per le cure mediche, sia preventive che curative. Anche in questo caso un cospicuo conto corrente può fare la differenza tra salute e malattia, tra vita o morte, ma anche la collocazione geografica non è neutrale, chi abita nelle aree meridionali spesso è costretto al pendolarismo sanitario per potersi garantire cure più efficaci e di qualità, processi che in futuro potrebbero intensificarsi a causa degli effetti della imminente autonomia diversificata di alcune regioni che rappresentano già adesso le mete preferite di questo turismo sanitario. Contrastare l’autonomia differenziata regionale e i tagli alle spese sanitarie è difendere il diritto alla salute.
Agricoltura, mutualismo e autogestione
Parallelamente alla lotta e al contrasto alle opere inutili, bisogna essere in grado di sviluppare iniziative di risposta dal basso che permettano di concretizzare un’alternativa sostenibile che vada oltre le modalità di produzione capitalista.
Non l’alternativa al modello di produzione capitalistico, ma riuscire a coniugare le esigenze e il bisogno di reddito e di sicurezza, costruendo forme di cooperazione e cultura dell’autogestione, dimostrando che… si può fare!! Sapendo che ogni esperienza può essere riassorbita dal circuito capitalistico ma è comunque occasione di sedimentazione di pratiche e palestra di pensiero alternativo.
E’ solo un primo passo naturalmente, che può avere seguito solo se sostenuto collettivamente in modo solidale. E’ un primo passo importante che denota una volontà di cercare fattivamente una via d’uscita da una situazione che per la gran parte della popolazione mondiale è già oltre il drammatico. Per costruire una società di liberi e libere ed uguali serve identificare tutti i momenti in cui ci si confronta in modo partecipato ed orizzontale, a livello individuale e collettivo, nei propri ambiti di partecipazione, sia che siano contesti culturali, vertenze territoriali e politiche, siano essi collegati a lavoro e produzione. Occorre vedere in questi momenti il potenziale esercitato dalla relazione e dalla co-progettazione nel tracciare in modo inclusivo i fili di bisogni ed obiettivi comuni.
La maglia che ne deriva è il tentativo di ricostruire un tessuto sociale ormai reciso e sfibrato dagli attacchi onnivori del capitalismo contro tutti i prodotti della collettività. Una rete di reti che sperimentano quotidianamente tecniche di resistenza e consapevolezza, ognuna incentrata sulle proprie emergenze, ma che di fatto costituiscano elementi utili per la ricomposizione di classe di settori di produzione, su matrice esperienziale e non identitaria. In cui ci si auto-organizza sviluppando vertenze che trasformano gli interessi in comune in veri e propri beni comuni da tutelare ed autogestire, che riducono nel tempo e nello spazio la distanza tra gli interessi immediati ed gli interessi storici degli sfruttati.
Per questo, quelli che sono stati spesso considerati fronti secondari, apparentemente interclassisti, che elaborano il conflitto sociale giocando principalmente sul piano culturale oltre che produttivo, assumono importanza in termini di ricomposizione sociale del conflitto. E questo è particolarmente evidente parlando di\ agricoltura.
L’agroindustria capitalistica ha prodotto solo mostri da un punto di vista ambientale, ha servilizzato un mondo bracciantile difficilmente sindacalizzabile, brutalizzato e frammentato. Ma proprio dal settore produttivo più bistrattato, riemergono – a cominciare dalla difesa della terra e dei suoi lavoratori- soggetti collettivi che a partire dai bisogni primari mirano a una trasformazione della società, alla difesa dei beni comuni, alla riconquista di forme di lavoro qualificanti in un quadro che non è eccessivo definire autogestionario, costruendo cooperazioni virtuose, riportando il reddito dell’azienda agricola non alla legge della domanda e dell’offerta ma al lavoro di chi lo fa e al fabbisogno produttivo di un territorio e di una filiera. Senza inseguire il sogno di fare secessione rispetto all’economia capitalistica, e tanto meno auto-accontentarsi di essere fenomeno residuale risparmiato dalle contraddizioni del sistema. Piuttosto- costruire e sperimentare su base territoriale metodi replicabili, ma non unici, per produrre e distribuire prodotti agricoli che siano ancorati a criteri etici ed economici in grado di sopravvivere alle leggi del capitale, contrastando le tare che lo caratterizzano, trovare modalità di accesso alla terra per incentivare forme di lavoro cooperativistico e non gerarchico.
La filiera va completata con i suoi pezzi successivi, con una trasformazione che può, deve poter uscire dall’ambito dell’autoproduzione e da quello artigianale per dimostrare che è possibile realizzare economie di scala che restino però ancorate ai principi del mutualismo e della sostenibilità, e coltivino sempre la diffidenza verso le sirene del capitalismo. In questo ambito cresce il mutualismo inteso come forma di resistenza ad un modello di società neoliberista e predatorio, che azzera il welfare, affama interi popoli, distrugge progressivamente i diritti umani, colpevolizza la povertà, monetizza i diritti civili e le libertà. La resistenza e la trasformazione, oggi come alle origini del movimento operaio, si configurano come un’esigenza collettiva di difesa e di promozione di diritti economici e sociali. Mutualismo, quindi, è inteso nei termini di interdipendenza e reciprocità di esseri umani che si prendono cura, che si impegnano per cambiare le relazioni fondamentali con la terra, con l’ambiente, con il mondo, e per questo esce e si libera dalla concezione lineare di progresso tipica del capitalismo e della sua logica mercantilistica ed individualistica.
Questo è quello che passa normalmente con l’accezione di “economia alternativa” non perché costituisca effettivamente un’alternativa all’economia del capitale, bensì perché si pone come laboratorio di sperimentazione di strategie di resistenza e progettazione delle strutture e del substrato per la rivoluzione sociale, in una prospettiva di liquidazione territoriale dello stato. La cifra che contraddistingue questo percorso è la battaglia, la ricerca, la conquista e lo sviluppo di pratiche e progetti per la proprietà collettiva. Per ricollegarsi alla storica battaglia della classe degli sfruttati e degli oppressi: la conquista e la proprietà collettiva dei mezzi di produzione.
Sicurezza e repressione
L’Italia così com’è oggi, oggetto della propaganda della destra reazionaria, sempre più povera, incapace di cogliere il nesso che esiste, sempre più palese, tra le scelte autoritarie del governo attuale e le ricadute sociali che già si percepiscono; l’Italia che rincorre il nazionalismo, sinonimo di impotenza e di ignoranza, è il paese capace di credere che prevedere la detenzione per i mendicanti, eliminare la protezione umanitaria, (solitamente concessa a chi scappa da situazioni di catastrofi naturali, discriminazioni, estrema povertà e violenze subite da molte donne), ci renda tutti e tutte più sicure.
La sconfitta del movimento per la casa e l’’attività del “piano di sgomberi” di questo governo, in continuazione con quelli precedenti, si inserisce in un contesto di periferie degradate dove il bisogno abitativo di tante persone, italiane e migranti, si scontra con la mancanza di politiche per le case popolari. L’abbandono di intere periferie serve solo a mettere a disposizione degli speculatori aree urbane degradate che potrebbero invece essere sottratte alla speculazione per un piano di riqualificazione popolare.
Il giro di vite repressivo introdotto con il decreto sicurezza colpisce pesantemente e riduce ogni spazio di agibilità: si rafforza il daspo urbano contro gli attivisti sociali, si prevedono anni di carcere e pene pecuniarie consistenti per chi occupa case e si procura un tetto, per chi partecipa ed organizza picchetti, blocchi stradali, ferroviari magari per difendere il proprio posto di lavoro. Il tutto mascherato da guerra al terrorismo e all’immigrazione incontrollata. La povertà è tornata ad essere una condizione socialmente pericolosa, da controllare e reprimere. Il razzismo diffuso serve a far credere che è il colore della pelle, la religione, i modi di vivere e la propria cultura che dividono le persone, ma niente è più falso: non è per il colore della pelle, ma per la propria condizione sociale. Questo è il frutto di un sistema economico-sociale che per sua natura non è in grado di garantire uno sviluppo progressivo e lineare in tutto il globo. La logica intrinseca, ovvero non soggetta alla volontà del singolo, del sistema capitalista è fatta di concorrenzialità, competitività, in ultima analisi di guerra sociale. La conseguenza non è uno sviluppo armonico della società, ma un necessario sviluppo disuguale, fonte di soprusi e di soppressione di diritti.
La forbice della disuguaglianza aumenta sempre di più, la disuguaglianza uccide. Le severe differenze di reddito danneggiano la salute, avvelenano il clima sociale, creano paura, sfiducia e violenza. Come costruire una risposta sociale?
Oltre a meccanismi psicosociali che vedono gli oppressi consenzienti rispetto all’oppressione o all’emarginazione, spesso è il mito della meritocrazia, il più efficace fra tutti, che legittima le disuguaglianze secondo il principio per il quale “chi è povero se lo merita perchè vale molto meno rispetto a chi ha successo”.
Questo determina un’accettazione della disuguaglianza e delle gerarchie che congela ogni tentativo di ribellione.
La disuguaglianza è funzionale al consumismo; nelle società caratterizzate da un alto grado di sperequazione, molte persone hanno un interesse quasi ossessivo per beni ritenuti segni di distinzione sociale, grandi firme e oggetti di culto. La competizione per lo status e la paura di poter essere messi da parte, socialmente e materialmente, genera una lotta tra poveri e un disperato individualismo, una feroce competizione tra gli strati più poveri della popolazione.
Il mezzo più efficace per combattere le disuguaglianze è costruire coscienza di classe, aumentare gli strumenti di consapevolezza e combattere l’ignoranza, costruendo spazi di cultura popolare. Rompere l’isolamento della precarietà rafforzando le lotte sociali e la solidarietà. Collettivamente possiamo analizzare e reagire per intervenire e cambiare l’esistente. In quanto comunisti e anarchici, insieme alla classe degli sfruttati e adottando soluzioni libertarie possiamo creare un mondo di libere/i e uguali.
Indicazioni strategiche: come già dicevamo siamo per:
1- Promuovere o appoggiare comitati spontanei che si organizzano al fine di impedire opere inutili e imposte che rispondono ad una logica e ad un modello economico e predatorio per i profitti di pochi. A scapito di opere utili e urgenti come la messa in sicurezza dei territori a seguito dei dissesti ambientali, zone terremotate, politiche popolari per case e scuole.
2- Sviluppare iniziative a sostegno di attività economiche e solidali e di cooperazione che permettano di individuare un percorso di alternativa sostenibile al modo di produzione capitalistico.
3- Riconquistare alla collettività spazi pubblici sottraendoli alla gestione mafiosa e affaristica.
4- Combattere ogni forma di criminalizzazione delle lotte che si abbatte inesorabile sulla conflittualità sociale di classe e che reprime ogni forma di dissenso con la carcerazione dei militanti sociali.
5- Aprire e autogestire spazi sociali e di aggregazione sul territorio: circoli, sedi politiche, camere del lavoro sociali intercategoriali. Al fine di promuovere cultura autogestionaria e sperimentare forme di autorganizzazione.
6- Creare e favorire forme di partecipazione di massa con caratteristiche di orizzontalità, federabilità, prassi libertaria e contemporaneamente lavorare per spostarle verso forme che siano di ( almeno parziale ) irriducibilità al capitalismo.
Stare nelle organizzazioni di massa, significa stare nella realtà, ma non avere come unico orizzonte la realtà esistente.
Il ruolo della organizzazione politica, Alternativa Libertaria/FdCA, è quello di difendere le conquiste acquisite, ma nello stesso tempo promuovere germi di contropotere. Significa individuare e promuovere soggetti collettivi, strutture, forme di coordinamento, fronti sociali e politici capaci di favorire la federabilità delle lotte.
Significa riportare la percezione dell’anarchia e del comunismo anarchico da un orizzonte identitario a una concreta agenda di lavoro.
( tratto dal documento del IX Congresso del 2014 a Cingia de Botti )
Mozione approvata al X Congresso di Alternativa LIbertaria/fdca,
Fano, 30 marzo 2019
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